Qual è stato il percorso personale e professionale che ha portato alla nascita dello Studio DFB? Quale esigenza o mancanza avete percepito nel panorama artistico che vi ha spinto ad aprire uno spazio indipendente?
Ho conosciuto Alberto Di Fabio nel settembre 2015 in occasione dell’inaugurazione di una sua mostra personale al Macro Testaccio, CosmicaMente. Stavo finendo un tirocinio per la redazione di Rai Arte e dovevo scegliere di produrre un servizio per la piattaforma, dalla scrittura dell’articolo al montaggio del video. La mostra aveva appena inaugurato e scelsi la mostra di Alberto. Ci siamo trovati. A lui probabilmente serviva qualcuno che lo aiutasse nei tanti progetti che tutt’ora porta avanti, a me serviva continuare a formarmi e soprattutto, ma all’epoca forse non ne ero pienamente consapevole, stare a stretto contatto con la produzione artistica, quasi artigiana. All’inizio fu una collaborazione saltuaria, dalla sistemazione dell’archivio, alla pubblicazione di un libro, fino alla produzione di un cortometraggio che abbiamo presentato a un festival a New York.
Solo nell’ottobre del 2021, in occasione della Roma Art Week, proposi ad Alberto di utilizzare un altro suo spazio come luogo espositivo. È uno spazio che si trova nella stessa via del suo studio, al Pigneto, che in passato è stato utilizzato occasionalmente come studio d’artista e magazzino di quadri. In principio fu un esperimento, col tempo è diventato un piccolo punto di riferimento per sperimentare e raccontare diversi linguaggi.
da sx, Alberto Di Fabio, Eloise Rojas, Tatiana Stadnichenko, Mattia Andres Lombardo
Penso che una percezione di mancanza, o per contrasto di esigenza, sia abbastanza comune. È difficile essere totalmente appagati in una personale ricerca culturale, anzi è proprio quando si vede e si scopre qualcosa di inaspettato che si innesta quel meccanismo che porta a volere continuare e approfondire questa ricerca.
Quindi più che di mancanza o esigenza preferirei parlare di volontà. È la voglia, oltre che la possibilità, di creare piccole esposizioni, di raccontare immagini e oggetti, di farlo con i mezzi che si hanno, che ha spinto la nascita di StudioDFB come spazio indipendente. È la voglia di collaborare con artisti diversi uno dall’altro, che producono oggetti e pensieri per me sempre nuovi, che continua ad alimentare l’attività di StudioDFB.
Studio DFB nasce con l’intento di promuovere giovani artisti e una pluralità di linguaggi. Come scegliete gli artisti che esponete? Quali sono i criteri curatoriali che vi guidano?
Abbiamo iniziato con ciò che ci era vicino e conoscevamo bene. Per la prima mostra, dal titolo IN&OUT, ho chiamato due amici artisti che a mio giudizio valgono molto, in termini poetici ed estetici sia chiaro. Giovanni Martinini e Ortro, due artisti molto distanti tra loro, ma che ho voluto mettere insieme per contrasto. Ecco, il contrasto o il collegamento tra due mondi apparentemente lontani, sono sicuramente criteri che personalmente mi piace molto seguire, ma ovviamente ce ne sono molti altri che devo ancora scoprire.
La seconda mostra fu la collezione privata di Alberto Di Fabio, fatta per lo più da doni e scambi con altri artisti nell’arco della sua vita. Una mostra che voleva mettere in risalto l’importanza delle relazioni e degli scambi, ogni opera raccontava una storia. Le prime due mostre furono quindi ciò che avevamo vicino, poi col tempo avvenne una cosa molto semplice: da cosa nasce cosa e ogni mostra divenne un’occasione per incontrare vecchi e nuovi amici interessati allo spazio e alla nostra modalità informale di creare piccole esposizioni.
Un’immagine della mostra “Collezione d’artista”
Il vostro spazio ha ospitato opere di artisti che vanno da Paolo Buggiani a Robert Hamblin, con una forte attenzione anche a temi contemporanei come il genere e la fluidità identitaria. Come pensate che l’arte possa intervenire nelle narrazioni sociali attuali?
Parlare di ciò che abbiamo vicino penso sia fondamentale. Come l’arte in generale possa intervenire nelle narrazioni sociali è una domanda un po’ troppo grande, ci sono tantissime possibilità. Sicuramente noi vogliamo far esprimere una pluralità di linguaggi e sensibilità molto eterogenea, senza però far esporre tutto ciò che ci viene proposto, ci sono dei limiti. L’arte solitamente viene proposta o dall’alto delle istituzioni o dal basso, attraverso il territorio e le relazioni che si creano. Noi, nel nostro piccolo, sicuramente facciamo parte della seconda, un tempo si diceva subcultura.
Un’immagine della mostra di Robert Hamblin
In questi tre anni di attività, come è evoluto lo Studio DFB rispetto agli intenti iniziali? Quali aspetti sono cambiati e quali rimangono il cuore pulsante dello spazio?
Rispetto all’inizio quello che è cambiato è sicuramente un po’ più di esperienza nel creare nuovi allestimenti e nuove forme espositive, oltre al fatto che ora siamo leggermente più conosciuti. Il cuore pulsante forse è il fatto di essere sempre stati, per scelta e indole, abbastanza informali e umili.
Un’immagine della mostra di Ema Jons
La vostra attività si inserisce nel contesto di un quartiere come il Pigneto, noto per la sua vitalità culturale e la presenza di realtà artistiche alternative. In che modo la vostra pratica interagisce con il territorio e come si relaziona con la comunità circostante?
Roma è una città che offre molto in termini di cultura, lo fa però in maniera un po’ anarchica e poco organica, nel senso che ho sempre avuto la percezione che la città viva un po’ per circuiti chiusi, sia per il carattere della città sia per difficoltà oggettive che tutti conosciamo. Io non sono di Roma, ma al Pigneto ci ho vissuto per più di 10 anni. È un quartiere che amo ed è davvero pieno di spazi alternativi, però per il motivo di prima non è facilissimo relazionarsi con tutte le realtà che vorrei. Ovviamente ci sono scambi e amicizie con altri studi e persone del quartiere, ma è sicuramente qualcosa che possiamo e vogliamo continuare a sviluppare.
Nel panorama artistico contemporaneo, qual è il ruolo di uno spazio indipendente come Studio DFB? Pensate che oggi questi spazi stiano ridefinendo le regole dell’arte rispetto alle istituzioni più tradizionali?
Alberto ama dire che facciamo subcultura e in un certo senso è vero, senza però identificarci con un’espressione particolare come sono state, e in parte lo sono ancora, le varie subculture sparse per il mondo. Noi vorremo rendere possibile la rinascita di queste sottoculture, quelle che ovviamente sentiamo più vicine a noi. Rispetto a un passato non troppo lontano però mi sembra che si sia un po’ persa questa volontà di far parte di qualcosa che sia autodeterminato, un’estetica o un pensiero con cui identificarsi. É tutto molto più omologato anche se paradossalmente c’è una diversità di proposte artistiche quasi esasperante. Non so se gli spazi (o le idee) indipendenti possano ridefinire le regole dell’arte, di certo da sempre ci hanno provato e alcune volte (troppo poche) ci sono riusciti. Noi non abbiamo certo quest’ambizione, ma di certo proviamo a resistere.
L’artista Paolo Buggiani durante la sua performance allo Studio DFB
In un’epoca in cui il digitale sembra dominare la fruizione artistica, qual è il valore dell’esperienza fisica in uno spazio come il vostro? Come vivete la tensione tra virtuale e reale nella fruizione dell’arte?
Probabilmente è la cosa più importante, o almeno una delle cose che personalmente trovo più importanti. Non perché ho qualcosa contro il virtuale. È come sta andando il mondo. Tutta la tecnologia di cui siamo circondati fa paura e il suo sviluppo sulla vita quotidiana, e quindi anche nella fruizione dell’arte e delle immagini, rimane in buona parte oscuro. D’altra parte però non si possono negare i benefici di cui tutti stiamo già usufruendo. Semplicemente apparteniamo ancora a quella sfera di persone che trovano più significativa l’esperienza fisica e il contatto con persone e oggetti. Incontrare persone, bere una birra e parlare di ciò che facciamo per piacere (o per tensione personale) è forse un lusso più grande di quello che pensiamo.
Guardando al futuro, ci sono nuove direzioni o progetti in cantiere per il 2025?
Si speriamo di si. Dobbiamo ancora capirle, ma così potrebbe e dovrebbe essere. Nuovi artisti e curatori troveranno, spero, un piccolo porto aperto.
Un’immagine della mostra della fotografa Elizabeth Bick
FONTI e APPROFONDIMENTI:
Spazio DFB, Via Raimondo Montecuccoli 11/C, e 28A, Roma
– Pagina Instagram (link)
Add comment