Inventario ripercorre attraverso una raccolta di brevi testi i momenti principali del percorso creativo di Fontana e racconta la rete internazionale di relazioni che hanno influenzato la sua ricerca poliedrica.
Sperimentatore di espressioni poetiche gestuali, visive e sonore Fontana da quarant’anni si occupa di linguaggi multicodice. Precursore della poetica pre-testuale e teorico della poesia epigenetica, ha attraversato le arti visive, architettura, teatro, letteratura e musica, giungendo a una nuova concezione del testo. Il campo principale delle sue esperienze è quello della “scrittura intermedia”. Le sue composizioni visive appaiono come e proprie partiture, pre-testi attraverso cui raggiungere una dimensione performativa. Attivo come scenografo, musicista e drammaturgo è autore di molti testi.
Giovanni Fontana è un’artista poliedrico. Ha esperienze di arti visive, architettura, teatro, musica, letteratura… Può illustrarci il suo percorso formativo?
Ho sempre avuto interesse per l’intersezione dei linguaggi, le contaminazioni, le dimensioni plurali. Fin da giovanissimo, ho praticato con curiosità le varie arti ed ho sperimentato tecniche diverse. Anche se il mio primo interesse è stato quello per la pittura, il teatro mi ha offerto lo spazio più adatto all’intreccio linguistico. Dopo aver lavorato, ancora studente, come scenografo, nel 1964 ebbi la possibilità di calcare la scena. Poi ebbi l’opportunità di comporre musiche di scena e di cantare le acerbe canzoni che scrivevo accompagnandomi con la chitarra. Tutte esperienze della prima ora che mi hanno aiutato a capire il mondo delle arti e dello spettacolo.
Certamente, l’impatto con una città come Roma e la frequentazione della facoltà di architettura contribuirono a preparare il campo alle esperienze verbo-visive e sonore. Mi iscrissi all’università nel 1965 vivendo in pieno l’esperienza dei movimenti del 68. Quell’anno fondai un gruppo di teatro laboratorio. Lì, dagli “audio-collage” che realizzavo come sottofondi per gli spettacoli, nacque la mia poesia sonora. Anche le esperienze verbo-visuali si formarono in quell’ambiente. Ecco perché, nel mio lavoro, la parola e l’immagine evocano quasi sempre il suono.
Come approda alla poesia pre-testuale e cosa rappresenta, a tale proposito, il concetto di interdisciplinarità?
Più che di interdisciplinarità, che nel mio lavoro appare in tutta la sua evidenza, preferirei parlare di “intermedialità”. Si tratta di un concetto che, al di là delle produzioni multimediali di tipo corrente, caratterizza forme espressive dove le discipline artistiche si intersecano in un’unica struttura, organica e inscindibile.
La letteratura e la poesia si fondono con il mondo dei suoni, la musica conquista lo spazio e la visibilità, la danza si collega ad installazioni audiovisive. Un processo intermediale può essere attuato soltanto attraverso un’efficace integrazione dei processi creativi, con l’applicazione di modalità compositive avanzate, ma senza farsi prendere la mano dalla tecnologia. Per questa strada, sono arrivato ad una concezione del testo come testo integrato, come ultratesto trasversale che vive di polifonie intermediali e interlinguistiche. Mi scuso per questi termini bizzarri, ma credo che siano necessari per evidenziare che le mie pagine sono costruite attraverso l’utilizzazione di linguaggi d’azione che non sono la mera sommatoria delle lingue sussidiarie che vi partecipano.
Il pre-testo nella sua forma tipografica (e non) deve contenere germi metamorfici capaci di realizzare la complessità della successiva tessitura dinamica, oltre la pagina. Il pre-testo è un luogo da trasfigurare, un territorio d’azione da ri-perimetrare, in termini di spazio e di tempo, con corpo, oggetti, suono, architetture, supporti tecnologici, ecc. Ogni pagina esige un prolungamento al di fuori di essa, ogni pagina ne apre un’altra, ogni opera è seme di un’opera successiva.
Adriano Spatola risulta una figura di rilevante importanza nel suo processo formativo, come nasce e si sviluppa la vostra collaborazione?
Il mio rapporto con Adriano inizia quando gli proposi la pubblicazione del mio “Radio/dramma”. Lo accolse con entusiasmo, scrisse un bel testo introduttivo e lo stampò con le proprie mani. Da allora collaborammo in numerose occasioni. Ne nacque una grande amicizia.
Verso il finire degli anni Settanta entra a far parte della redazione della rivista “Tam Tam” ed inizia a frequentare gli ambienti della sperimentazione poetica internazionale. Quali rapporti di collaborazione nascono da questa esperienza?
La frequentazione del Mulino di Bazzano (sede della rivista e rifugio di Spatola) fu senz’altro importante per me. Lì potevo incontrare i protagonisti della scena internazionale. Ma un momento straordinario fu la rassegna “Oggi Poesia Domani”, che curai con Adriano. Fu una manifestazione importante in quegli anni (siamo nel 1979), se non altro perché vedeva coinvolti centinaia di poeti interessati alla multimedialità e alla sinestesia.
Fu in quell’occasione che iniziarono rapporti di collaborazione con Blaine. Lì conobbi Heidsieck, Sarenco, Pignotti. Lì costituimmo il gruppo di poesia sonora “Il Dolce stil suono”, con Arrigo Lora Totino, Giulia Niccolai ed altri artisti. E proprio in quei giorni aprii diversi canali di comunicazione; entrai in contatto con Chopin, con Lebel, con gli americani; tra questi: Dick Higgins e John Giorno.
Ha pubblicato diversi dischi e libri, tra romanzi, saggi teorici e critici. Vorrei ripercorresse le tappe fondamentali di questo percorso soffermandosi su due romanzi sonori quali Chorus e Tarocco Meccanico.
In entrambi i casi si tratta di esperienze di scrittura labirintica, ma molto diverse tra loro. “Tarocco Meccanico”, del 1990, si pone come tessitura verbale che registra suoni inquadrati in un binario ritmico che si appoggia per lo più a cadenze in ¾. “Chorus”, del 2000, è, invece, un «romanzo per voci a battuta libera», che si presenta anche come una pièce teatrale, come un poema o come una partitura di “poesia sonora”, che si lascia percorrere in quanto pre-testo da riorganizzare in dimensione spazio-temporale, come vera e propria poesia dello spazio (secondo l’accezione di Paul Zumthor).
Le sue esperienze di gruppo. Dal Dolce Stil Suono al gruppo Hermes Intermedia.
Del “Dolce Stil Suono” rimane un numero speciale dell’audiorivista “Baobab”. Fu una bella stagione che si concluse drammaticamente con la scomparsa di Adriano nel 1988. “Hermes Intermedia”, fondato da Antonio Poce nel 1997, è un laboratorio di processi intermediali al quale aderiscono Valerio Murat e Giampero Gemini. È una struttura a tecnologia avanzata che opera nel campo dell’elaborazione del suono e delle immagini. Contiamo partecipazioni e riconoscimenti in ogni parte del mondo.
Diverse sono le sue collaborazioni illustri anche in ambito musicale, ci racconti l’esperienza con Ennio Morricone.
Per i concerti programmati dal Conservatorio di Frosinone per il centenario del futurismo, il maestro ha scelto di scrivere una composizione su un mio testo dedicato al fotodinamista Anton Giulio Bragaglia. Esperienza entusiasmante. La mia voce, live, si incrocia alla mia stessa voce preregistrata e ad un coro di 150 elementi sostenuto da un’orchestra di ottoni e percussioni. L’impatto sonoro è straordinario.
Il suo percorso artistico è costellato di partecipazioni, in varie vesti, allo sviluppo e alla nascita di molte riviste tematiche. Ci illustri questo cammino giungendo ai suoi attuali impegni con riviste internazionali come Doc(k)s, Inter e Territori.
“La Taverna di Auerbach” ha avuto una funzione considerevole per lo studio delle tematiche intermediali. Ma anche tutte le precedenti esperienze hanno inciso sui miei equilibri creativi e teorici. “Doc(k)s” e “Inter” sono pubblicazioni molto dinamiche. Generalmente allegano alla rivista un CD o un DVD. Su queste pagine mi occupo di questioni teoriche e critiche. “Territori” è altra cosa. Si tratta di una rivista che fa capo all’Ordine professionale e che dirigo come architetto.
Dalle avanguardie ad oggi, come si è evoluta e quali prospettive future si annunciano per la poesia visiva?
L’arte ha registrato in tutti i suoi periodi storici fenomeni di contaminazione verbo-visuale; ma, certamente, la poesia visiva ha alcune peculiarità che ne determinano la piena autonomia dal punto di vista linguistico. La poesia visiva è ormai internazionalmente riconosciuta come genere artistico. Oltretutto è un fenomeno in espansione. E se parlo di espansione non mi riferisco solo al dato quantitativo, bensì anche a quello “mediale” e tecnico.
La poesia visuale, infatti, è entrata ormai da anni in rapporto con l’elettronica. Ne sono scaturiti interessanti esempi di poesia dinamica, di videopoesia, di audiovisualità intermediale. Ma, così come l’area digitale ci riserva sorprese, sul paesaggio in trasformazione si affacciano anche nuove concezioni progettuali e nuove poetiche
Add comment