Out of Time. Ripartire dalla natura – questo il titolo della XIX Biennale Donna – esplora da diversi punti di vista l’era di cambiamento ecologico rapido e irreversibile creato dall’impatto umano con lo sfruttamento dissennato delle risorse naturali. La mostra nel suo insieme sfida lo status quo del dominio umano sulla natura evidenziando sia il legame profondo e imprescindibile tra vita umana e non umana che la collaborazione sempre più stretta fra arte, tecnologia e scienza.
Lo stato del nostro pianeta e gli effetti dell’intervento umano su di esso vengono esaminati attraverso video, fotografia, scultura e tecniche miste che immaginano modi alternativi di pensare un futuro possibile.
Al di là del tema ambientale raccontato attraverso un approccio transnazionale e transgenerazionale, che cosa ha determinato la scelta delle artiste in mostra?
Silvia Cirelli: Il progetto curatoriale scelto da me e da Catalina Golban, co-curatrice, segue la volontà di esplorare la tematica ambientale evidenziando quanto il dibattito ecologico debba in realtà essere raccontato mettendo in luce l’intreccio costante tra le varie sperimentazioni artistiche e contesti differenti: sociali, culturali, geopolitici ed economici.
Il pensiero collettivo quindi, non solo deve scardinare l’ormai anacronistica visione antropocentrica, ma deve soprattutto costruirsi sulla consapevolezza di un’interdipendenza fra ambiente e tessuto sociale. La versatilità delle artiste selezionate rientra quindi in questa fondamentale prospettiva, riflettere sul dibattito ambientale attraverso un dialogo diretto con la scienza, la tecnologia, l’antropologia, la filosofia, un ampio raggio di visioni interdisciplinari.
Un tema centrale di Out of Time è l’interdipendenza di organismi e sistemi della biosfera e la critica dell’antropocentrismo che ha dominato lo sviluppo delle economie così dette avanzate. Questa critica appare esplicita nell’approccio ‘archeologico’ dei paesaggi dell’Antropocene di Diana Lelonek. Può dirmi qualcosa in proposito?
Silvia Cirelli: La giovane artista polacca Diana Lelonek ha costruito gran parte della sua pratica espressiva sulla narrazione dei danni dell’azione umana sulla natura, e sulla necessità di ipotizzare invece soluzioni alternative non più di dominazione, ma di dialogo, d’interdipendenza fra le varie specie. Ne è un chiaro esempio il progetto Center For Living Things presentato in mostra. Center For Living Things è un vero e proprio Istituto di ricerca dedicato alla raccolta, collezione, analisi, catalogazione e poi successiva esposizione di nuove forme organiche di natura per così dire “umanotiche”, come la stessa artista le definisce.
Sono oggetti abbandonati dall’uomo, scarti della società̀, rifiuti della spasmodica sovrapproduzione globale che, una volta gettati, diventano terreno fertile per alcuni organismi viventi. Queste cosiddette forme ibride vengono poi mostrate in vetrine espositive che s’ispirano alla tradizionale testimonianza di esemplari e campioni nei musei di storia naturale, vetrine che però hanno un particolare sistema di ventilazione e innaffiamento, fondamentale per salvaguardare la vita delle varie piante, funghi o muschi cresciuti al loro interno.
Gli interventi di Ragna Róbertsdóttir e le installazioni sonore di Christina Kubisch sembrano più orientati a veicolare un discorso sull’ambiente attraverso il dialogo con la storia dell’arte, richiamando estetiche tipiche del movimento minimalista.
Silvia Cirelli: Sia Ragna Róbertsdóttir che Christina Kubisch hanno un’evidente impostazione linguistica minimalista. Róbertsdóttir già dalla fine degli anni ’80 fu influenzata da artisti come Donald Judd, Alan Charlton, Richard Long, Carl Andre, tutti personaggi chiave del panorama artistico dell’epoca, e che la stessa artista incontrò durante i loro frequenti viaggi in Islanda.
Christina Kubisch, d’altro canto, si avvicinò all’eleganza minimalista e concettuale parallelamente alla sua lunga ricerca nel campo sonoro. Fu infatti una delle prime artiste a comprendere e utilizzare elementi sonori all’interno delle proprie opere.
La scelta però di includere questo differente approccio artistico, più minimalista rispetto agli altri modelli espressivi in mostra, non vuole essere fine a sé stessa, quanto invece ci interessava esplorare il rapporto uomo natura nelle sue molteplici espressioni, più viscerale e intimista per Róbertsdóttir e invece più tecnologica con i paesaggi acustici di Kubisch.
Al contrario, il lavoro di generazioni più recenti sembra sempre più confrontarsi e ibridarsi con il mondo scientifico, e l’indagine artistica allargarsi per esplorare sensi diversi della vista. Il lavoro di Anaïs Tondeur rientra in questa modalità d’intervento. Può raccontare i progetti dell’artista in mostra?
Silvia Cirelli: La francese Anaïs Tondeur si concentra da sempre sul dibattito ambientale esplorandolo nell’ottica di un’indagine scientificamente documentabile. I suoi progetti infatti, prima di diventare opere, sono vere e proprie esplorazioni, spedizioni sul campo realizzate con la collaborazione di geologi, fisici o oceanografi. Le due composite installazioni presentate in mostra ne sono un chiaro esempio.
Da una parte abbiamo l’opera Memory of the Ocean, un progetto dedicato allo studio del cambiamento climatico attraverso l’analisi dei cicli oceanici. Nel dettaglio questo lavoro è composto di un video che cattura gli abissi, una selezione di campioni di acqua oceanica collezionata a diverse profondità e una mappa che riporta i vari luoghi in cui l’acqua è stata raccolta. La video installazione rappresenta quindi la documentazione visiva di un’ampia pratica di ricerca scientifica.
L’altra opera invece, dal titolo Petrichor, si sofferma sulla tracciabilità del petricore, il particolare odore del suolo dopo la pioggia. Dall’analisi dei residui di suolo, l’artista s’interroga sull’impatto delle mutazioni coabitative e sulla perdita di connessione fra individuo e natura. Il progetto è realizzato in collaborazione con l’antropologo Germain Meulemans e consiste nella raccolta di campioni del suolo e la successiva distillazione del liquido oleoso per ricavarne appunto la loro essenza.
Nel lavoro di Monica de Miranda, i giardini botanici sono lo spunto per analizzare l’eredità coloniale portoghese e gli sviluppi post-coloniali in Angola. Può parlarmi della poetica dell’artista?
Silvia Cirelli: Abbiamo scelto di includere Mónica De Miranda nel progetto della Biennale Donna perché eravamo interessate a esplorare il dibattito ambientale anche da un’inclinazione più prettamente antropologica. Il percorso di Mónica De Miranda è difatti incentrato sulla sua grande sensibilità etnografica e dunque una riflessione ecologica legata a dinamiche sociali particolarmente comuni nelle cosiddette ex colonie portoghesi su cui l’artista si sofferma da anni.
Le origini angolane di De Miranda la portano a un’attenta esplorazione delle ferite del colonialismo violento che stravolse non solo il tessuto sociale e culturale di queste popolazioni, ma anche il paesaggio stesso. Le ferite del paesaggio sono anche le ferite dell’essere umano, proiettate in una narrazione che si basa sulla necessità di ricostruire la propria identità, sociale ma appunto anche ambientale.
Anche se molti degli interventi di Out of Time criticano l’antropocentrismo come sottotesto del problema ambientale e implicitamente l’androcentrismo che connota l’Antropocene, la mostra tuttavia non sembra includere pratiche dichiaratamente eco-femministe. Se fosse così, è stata una scelta curatoriale?
Silvia Cirelli: Con questa edizione della Biennale Donna abbiamo voluto esplorare la creatività femminile avviando una riflessione critica su di un tema che non ha confini di genere o di generazione. È una crisi universale, che riguarda tutti noi in quanto ospiti di questo pianeta. Il pensiero ecologico e la visione sul rapporto fra essere umano e la natura assume quindi una valenza totalitaria. Ci è sembrato dunque doveroso evidenziare il carattere universale del tema senza limitarci a espressioni unicamente eco-femministe.
Che peso hanno oggi a suo parere movimenti artistici attivisti di resistenza globale che cercano di sensibilizzare l’opinione pubblica alla cura di una Terra comune?
Silvia Cirelli: Credo che sia giustissimo, anzi necessario, puntare su di una sensibilizzazione ad ampio raggio, che coinvolga quindi, con modalità e linguaggi differenti, il maggior numero di interlocutori. L’arte in questo senso, già da diverso tempo si è giustamente allineata all’esigenza comune di sviluppare un pensiero ecologico che scardini la chiaramente fallita visione antropocentrica.
Una delle artiste in mostra, Diana Lelonek, è particolarmente attiva anche su questo piano. Il progetto Seaberry esposto in Biennale, fu infatti anche presentato durante il COP24, il Summit sul Clima delle Nazioni Unite nel dicembre del 2018 a Katowice. Insieme a Greenpeace la stessa Lelonek presentò Seaberry all’interno di una mostra dal provocatorio titolo “The Most Beautiful Catastrophe” che, a due passi dal Summit, aveva lo scopo di “aprire gli occhi” su una situazione disastrosa, quella climatica, su cui ancora non si è fatto abbastanza.
Fonti e approfondimenti OUT OF TIME. Ripartire dalla natura a cura di Silvia Cirelli e Catalina Golban 27 marzo – 29 maggio 2022 Padiglione d’Arte Contemporanea Corso Porta Mare 5, Ferrara Orari di apertura 10.00 – 18.00, chiuso il lunedì Prenotazioni https://prenotazionemusei.comune.fe.it/
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