Artista multidisciplinare, Max Marra nella mostra antologica in corso al MARCA di Catanzaro, dal titolo L’inquieta bellezza della materia, a cura di Teodolinda Coltellaro e organizzata dalla Fondazione Rocco Guglielmo in collaborazione con l’Amministrazione Provinciale di Catanzaro, presenta quarant’anni della sua corposa attività di sperimentazione in cui costante è il ricorso alla materia, non solo fonte di evocazioni tattili e cromatiche ma narrative ed emotive.
Artista di origini calabresi operante ormai da decenni in Lombardia, Marra indirizza costantemente la propria ricerca verso l’interazione e la contaminazione linguistica di disegno, pittura e scultura avvalendosi di una matericità di forte valenza comunicativa e antica memoria visiva, tratta dai luoghi e spazi interiori dell’infanzia. Emerge dal suo operare la funzione liberatoria, salvifica e di elevazione spirituale dell’arte, il condurre una materia che altrimenti resterebbe inerte e inespressiva, a spiritualizzarsi, a divenire cioè elemento lirico e simbolico.
Già negli assemblaggi polimaterici degli anni Settanta e Ottanta, la materia dell’opera d’arte trova nuova interpretazione plastica nei residui oggettuali, oggetti di scarto, superstiti residuali solitamente destinati alla marginalità che Marra, pittore della materia, eleva ad arte, rigenerandone il significato in quanto materia artistica. Nei Pacchetti prima e nelle Pance ferite poi, la materia col suo aggetto è capace da sola, senza alcun attributo mimetico e realistico, di evocare l’idea della carne, di divenire emblema di una memoria vissuta, la sofferenza e l’essenza stessa della natura umana, che il processo artistico, in quanto cura, trasfigura in immagini di poetica bellezza, legittimando un’interpretazione delle sue opere in chiave metaforica ed esistenziale.
Ed è proprio su questo costante ricorso alla materia fino alla produzione più recente, come cifra della sua contaminazione linguistica, che ho inteso impostare la riflessione sul suo lavoro.
Il legame con la terra d’origine, è rintracciabile, seppure in forme diverse, in tutta la Sua ricerca artistica, dal periodo polimaterico fino alla produzione più recente. Una memoria che, dal microcosmo del Suo vissuto ha suggestionato e sostanziato da sempre il macrocosmo della Sua arte, traducendo la materia da mezzo a fine dell’opera stessa.
Max Marra: Il legame con la terra d’origine è un punto di sensibilità creativa predominante. Ogni riferimento alla materia incontrata, sia essa naturale (legno, terra, carbone, corda) oppure in forma di scarto industriale (metallo, leghe leggere, lamiera, catrame, piombo) è stato essenziale nel mio operare, dandole forma e trasformandola in opera d’arte. L’ espressività dell’opera diviene magia, risultato poetico, attraverso una forma d’amore verso la materia incontrata nella mia gioventù.
Le corde intrecciate e gli stracci lacerati ritornano sovente nelle mie opere, come gesti arcaici e automatici che rievocano i nodi dei pescatori e i teli consunti dal mare e dal vento che ricoprivano le loro barche rientrate sulla spiaggia.
Ricordo quando seguivo mio padre, ferroviere, nei cantieri e nei depositi delle locomotive. Sono elementi ancora vivi l’odore degli oli lubrificanti, i colori scuri in contrasto con i numeri rossi e bianchi stampati sui treni, i rumori meccanici delle officine.
Si potrebbe parlare di una sorta di sublimazione della materia all’interno dello spazio della composizione pittorica.
Max Marra: La struttura di un’opera finita si elabora all’interno di un processo creativo che diviene un qualcosa di cosmico perché nella trasformazione stessa c’è la morte e la vita dell’opera d’arte. La materia diventa, risolve e rinasce con l’operato morale, poetico del sentire umano inserito in un discorso artistico di creatività. L’opera stessa diviene operazione cosmica perché noi stessi siamo cosmos.
Il che, mi chiedo, equivarrebbe a farla sparire in quanto materia? Solo se la materia perde la sua funzione rappresentativa può essere adoperata nella creazione artistica e generare stati di elevata emotività?
Max Marra: Nel mio operare artistico la materia ha varie fasi di elaborazione. Nella sua trasformazione prende nuova forma, nuovo significato, sempre in equilibrio tra quello che era in origine e il suo nuovo divenire. In questa fase di assestamento ci sono la discussione e la dialettica, nel senso etimologico del termine. Anche nella soluzione finale, la materia non perde mai la sua funzione esistenziale e la memoria primitiva che custodisce. La nascita di una idea poetica ha comunque e sempre in sé il significato dell’essere e la profondità dell’esistenza.
Anche nei lavori di matrice segnico gestuale, il potere espressivo del segno, determinato dalla dinamica del gesto e dall’azione, estensione del corpo e dell’interiorità, assume connotazioni materiche e plastiche in quanto traccia di esperienze vissute.
Max Marra: L’esercizio gestuale, che sia veloce o meditato, è l’evoluzione dinamica di una filosofia che determina il collegamento tra oriente e occidente; calma, estasi e caos si mischiano nella descrizione compositiva dell’opera, come esercizio zen di una completa evoluzione dove l’artista è acrobata nella propria opera.
Protagonista dell’opera è dunque la materia. Materia che si offre all’osservatore anche con lontane allusioni al corpo. Una materia, quindi, vitale e di grande energia evocativa.
Max Marra: In moltissime mie opere di ricerca esiste la terza dimensione; essa diviene una tridimensionalità cosmica che si riconduce a un corpo fisico: “noi” come entità universale trasformata in opera d’arte. Per esempio, nel ciclo delle “Pance ferite”, il riferimento alla fisicità è molto evidente, ma il processo a cui tendo è quello di sublimare il corpo, la fisicità e la materia.
Il Suo lavoro è contemporaneamente geometrico e organico, razionale e poetico. Incline all’informale materico e al tempo stesso calibrato su un ritmo compositivo sempre perfettamente equilibrato. Seppure talvolta la materia è lacerata, inquieta, l’impaginazione formale è molto composta, in una tensione dialettica tra il prelievo e la lacerazione e il suo assestamento formale, come se oltre al carattere tormentato della materia, il Suo interesse si rivolgesse più alla sutura delle cuciture, suggerendo un’interpretazione poetica delle ferite.
Max Marra: Il mio lavoro verte su una organizzazione razionale dell’opera d’arte, tesa alla poesia finale. La sua ritmica compositiva ha un equilibrio anche nella materia lacerata e inquieta e nelle sovracuciture che danno espressione e forza. Nella cucitura c’è tutto l’interesse al risanamento di un corpo martoriato, ferito che necessita di un intervento urgente nella società dei perdenti e degli invisibili. La mia arte va nella direzione di cura e risanamento morale.
Il ricorrere a soluzioni espressive nuove e a sperimentazioni incentrate sulle capacità espressionistiche della materia è la naturale conseguenza di una ricerca artistica improntata da sempre alla multimedialità, alla trasversalità e innovazione dei linguaggi, alla contaminazione di discipline artistiche diverse. In questo potremmo rintracciare il fulcro del Suo operare artistico, teso da sempre al raggiungimento di una arte totale.
Max Marra: Ogni materiale porta con sé un proprio linguaggio, diversi linguaggi che, nell’operazione di crescita dell’opera, comunicano tra loro generando equilibri espressivi. Mi interessa trovare un punto di unione in un’espressione poetica comune, universale dove ognuno possa ritrovarsi e riconoscersi e l’opera diventi lo strumento di condivisione di emozioni collettive.
Una ricerca costante, innovativa e multimediale, che in alcuni casi finisce per ricorrere anche a un’autorialità collettiva. Con la fondazione del collettivo interdisciplinare Osaon il Suo operare si direziona definitivamente verso l’integrazione delle arti, uno degli aspetti più vivi dello stato attuale dell’arte contemporanea, attraversata da intersezioni e compenetrazioni tra discipline diverse.
Max Marra: Si tratta di una esperienza fortemente significativa del mio percorso artistico che risale all’inizio della mia attività. Un periodo di forte sperimentazione e interazione nel campo della commistione tra le arti, pittura, scultura, musica, performance, teatro, poesia con altri artisti in una Milano culturalmente molto fervida. Il gruppo Osaon è nato negli anni ’80 in uno spazio culturale Open Art, diretto da Luigi Bianco, dove confluivano personaggi della sfera artistico-letteraria italiana, quali il poeta Teresio Zaninetti, lo scrittore surreale Gastone De Luca, l’artista Luz Niesporek, il performer Nicola Frangione, il musicista Mario De Leo, e a cui era associata una rivista mensile di approfondimento. Gli interventi che proponevamo erano davvero opere collettive e multidisciplinari, legati ai linguaggi della contemporaneità.
All’interno della Sua corposa attività di sperimentazione rintraccio un altro elemento di forte attualità, seppure stavolta su un piano contenutistico. Mi riferisco al ciclo di opere Francesco è solo, incentrate sulla figura di S. Francesco da Paola come metafora della solitudine dell’uomo contemporaneo. Mai come oggi l’uomo sta sperimentando diversi livelli di solitudine, isolamento, distanziamento fisico, quarantena e mai come oggi questo soggetto potrebbe caricarsi di ulteriori significati. La pandemia ha rappresentato per Lei l’occasione per sviluppare ulteriormente questo ciclo o si è concentrato su progetti inediti?
Max Marra: Il ciclo delle opere dedicate a San Francesco di Paola è stata l’occasione per assecondare, in quel periodo, la mia esigenza di raccontare un momento di forte spiritualità riflettendo sulla solitudine dell’uomo. Oggi, a distanza di diversi anni, questa solitudine dell’uomo è attualmente amplificata dalla pandemia. Oggi l’uomo diventa solo in un universo distruttivo che si chiama “covid” e si accorge di essere una entità piccolissima e inerme. E proprio in questo periodo ritorna fortemente l’esempio di San Francesco di Paola e attraverso il Santo l’opera restituisce quella voce di speranza affinché la poesia aiuti al miglioramento morale all’umanità. Viva il mondo. Viva la vita.
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