Possono il desiderio di saperne di più, la curiosità conoscitiva, la caparbia perseveranza condensata in tre domande ulteriori non poste, sopravvivere al tempo? Può il tempo replicare se stesso, condensare l’attesa in una dimensione sospesa nell’estensione analitica delle singole domande? È quanto mi sono chiesta nel proporle a Mario Cresci, annoverato tra i maestri della fotografia italiana contemporanea, ma difficilmente ascrivibile ai soli territori linguistici della fotografia e per cui il medium è linguaggio, è scrittura, è ricerca sul campo, sperimentazione continua. Le sue risposte alle domande, poste dopo alcuni anni dalla prima intervista incentrata sull’esperienza fondamentale di Tricarico, dicono che tutto ciò è possibile, è possibile continuare a riempire di senso il desiderio di sapere di più e oltre. Nel frattempo, si è passati da un ammirato e deferente “lei” ad un più amicale “tu”, ma la necessità di conoscere ciò che mancava alla completezza della mia indagine è rimasta inalterata, caparbiamente ancorata all’urgenza di esplorare ancora un altro tratto del suo cammino artistico, di attraversarne le distese feconde di inedite percorrenze creative che ripetono le stesse matrici generative, ma declinano nuove relazioni tra segni, nuove modalità d’uso del medium fotografico per andare oltre esso, per sconfinare in altri universi segnici. Infatti, i suoi segni si muovono, conquistano nuovi spazi di significato, “migrano” da un confine all’altro nei territori del visivo, diventano altro, raccontano la loro origine pur allontanandosene. Allora, tre domande diventano tre possibilità aggiuntive per arricchire di nuova e preziosa sostanza concettuale il mio dire analitico. Da esse, dalle parole di Cresci, dalla loro fertile dimensione narrante, s’origina un universo di incontri, di esperienze vissute, un archivio di immagini, di contaminazioni, di straordinarie ibridazioni, di segni che scavano la dimensione umana e riconducono, oltre il visibile, alla sostanza più vera delle cose.
Dopo la serie “Interni “ e “Interni mossi”, realizzi a Tricarico la serie “Ritratti reali” o “ Ritratti in tempo reale”. In risposta a quale esigenza d’indagine nascono i lavori di questa serie di sequenze fotografiche in tre tempi in cui ritrai gruppi familiari all’interno delle loro case con in mano le fotografie dei propri antenati?
Mario Cresci: La serie dei “Ritratti reali” nasce in un momento particolare della mia vita costituito dal desiderio di allontanarmi da Venezia per cercare altre situazioni da sperimentare in altre città come Roma nel 1968 e Parigi nel 1969 per poi ritornare a Tricarico nel 1970 e iniziare le riprese dei gruppi di famiglia che erano già nella mia mente sin dalla fine degli anni Sessanta. Nell’agosto del ‘67 ero per la prima volta in Basilicata e a Tricarico ho iniziato a scoprire un “mondo nuovo” che non conoscevo e che avevo visto solo attraverso la letteratura e le immagini di cinema e fotografia.
Nel 1992 per l’Editore Sheiwiller scrivevo tra la cronistorie di quegli anni: «Tra il 1966 e il 1967 con il gruppo di urbanistica “Il Politecnico”, che si era formato a Venezia per iniziativa del sociologo Aldo Musacchio, scesi per la prima volta in Basilicata, a Tricarico, un paese della provincia di Matera. Il mio compito all’interno del gruppo, consisteva nell’organizzazione grafica degli elaborati e nel rilevamento fotografico degli ambienti, degli spazi esterni, degli oggetti e di tutti i momenti che caratterizzavano la vita sociale e i rapporti di produzione della comunità. Appena arrivato alla stazione ferroviaria di Grassano-Tricarico, ebbi la sensazione immediata di come una persona possa perdere improvvisamente la memoria e la cognizione del tempo trovandosi in un luogo imprevisto e così diverso dalle proprie abitudini. Nello stesso istante, una miriade di pensieri e immagini nuove apparivano alla mente, un po’ come a José Arcadio Buendìa nella terra di Macondo, il villaggio di “Cent’anni di solitudine”, di Márquez. Un totale senso di spaesamento, per un lungo periodo, mi obbligò a riflettere sulla mia formazione professionale e sulle ragioni di quel mio primo viaggio al Sud.» (cit. M.Cresci, “Matera, luoghi d’affezione”, Milano, Scheiwiller 1992).
Devo dire che nel paese ero arrivato come grafico e fotografo all’interno di quel gruppo di progettazione per il Piano Regolatore di Tricarico che anni dopo risultò essere stato uno dei primi e tra i pochi esempi di architettura partecipata nella storia dell’Urbanistica in Italia. Il mio ruolo consisteva nel fotografare in senso critico e non documentaristico la realtà del paese per rendere visibile attraverso le mie immagini ciò che poteva essere utile al gruppo di lavoro per la conoscenza dell’identità del luogo e delle persone.
Ricordo ancora che la dimensione del vivere direttamente a Tricarico per molti mesi per condurre la ricerca fotografica era come entrare in un grande spazio simile a una “bolla temporale” abitata da persone, cose, animali, luci, parole, suoni, ombre, tempi lunghi, odori, sguardi e scoprire che nessuna forma d’arte o di comunicazione visiva poteva darmi le emozioni che l’insieme di questi “mondi” mi trasmetteva non solo attraverso la fotografia quanto piuttosto attraverso l’essere immerso fisicamente in essa a diretto contatto con la realtà perché ne avrei ricavato altre forme e altri mondi rappresentati in immagini che stavano entrando nella mia visione ma ancor prima nei miei pensieri che anticipavano spesso l’atto della ripresa attraverso l’obiettivo.
La serie dei “Ritratti reali” nasce quindi in un particolare contesto geografico del Mezzogiorno italiano, in un paese come Tricarico a pochi chilometri da Matera situato nel sud dell’Europa ma nello stesso tempo situato a nord del bacino del Mediterraneo; realtà questa spesso dimenticata o negata da coloro che ancora oggi considerano le culture meridionali separate da quelle imperanti delle cosiddette aree avanzate dello sviluppo industriale del nord d’Italia e del Continente. Mentre a Venezia avevo appreso la cultura del design come la principale fonte di conoscenza della Gestalt, la teoria della forma e della percezione fondata dalla Bauhaus tedesca, a Tricarico iniziavo a conoscere un’altra cultura che nel termine di “cultura materiale” racchiudeva altri “mondi” da esplorare che non potevano rimanere solo relegati alle immagini del cinema e della fotografia del neorealismo italiano del dopoguerra.
Nel 1974 per la rivista fotografica “Photo 13” il suo direttore, Ando Gilardi, ha scritto la prima recensione dedicata ai “Ritratti reali” da cui ho tratto questo brano che mi sembra significativo ancora oggi a distanza di tanti anni: «Mario Cresci ci offre con queste immagini la più splendida ricerca di tipo anche archeologico sul “super ritratto” di gruppo che abbiamo veduto negli ultimi anni. L’immagine nell’immagine, cioè la fotografia-della-fotografia è una formula antica, ma Cresci le ha dato uno spessore straordinario. L’iterazione del “monumento” familiare costruito con una o più istantanee “del tempo che fu”, dei “momenti felici “, intorno al quale ora si raccoglie la famiglia, o meglio il rudere della famiglia sbrindellata dall’emigrazione, rappresenta un’idea, poi un’opera visiva fra le più sublimi del nostro tempo».
La tua esperienza in Basilicata risulta talmente intensa e coinvolgente da spingerti a ritornarci e a restarci ancora per un lungo periodo. In questa ulteriore permanenza che durerà fino al 1990, come riesci a far coesistere e a intrecciare i concetti di territorio, di memoria, di identità con le strutture linguistiche proprie del tuo lavoro creativo?
Mario Cresci: Se per esperienza intendi il contenuto di conoscenza umana considerato dal punto di vista delle modificazioni psicologiche e culturali che esso determina nello sviluppo spirituale di una persona, sono d’accordo perché nel senso più oggettivo possibile, l’esperienza vissuta in Basilicata è stata per me una forma di conoscenza diretta acquisita con l’osservazione e la partecipazione in una realtà che mi ha fornito delle sensazioni che sono andate al di là del visibile, coinvolgendo il mio immaginario e la mia totale fisicità. Sembra un paradosso se consideriamo l’uso del mezzo fotografico come garanzia di una certa veridicità del reale dovuta a ciò che si vede; nel mio caso, pensando a Duchamp quando si definisce un “anartista”, ritengo che il solo atto retinico del vedere atrofizzi l’uso di una sensorialità più estesa del nostro corpo nel pensare e nel produrre arte.
La Basilicata, il territorio dove ho abitato per quasi vent’anni, l’ho vissuta come se fossi un nativo, un autoctono, una persona che ha travato la propria etnia in una comunità che bene o male ha reagito in senso positivo ai miei desideri, ai miei sogni e alle mie proposte di trasformare la memoria del passato in un complesso di idealità progettuali rivolte al futuro.
Prima indicavo, nella “bolla temporale” in cui mi sono trovato ad agire a Tricarico, una metafora significativa per l’inizio di un’esperienza che ha dato il via ad una intensa ricerca sul linguaggio fotografico che ha inglobato discipline umanistiche e scientifiche che hanno sostenuto le mie scelte di natura estetica, tra la teoria e la prassi dentro a un ambito territoriale ricco di sedimentazioni storiche di grande rilevanza interculturale. La mia è stata una presa di coscienza verso il patrimonio etnico e antropologico di un popolo e di un territorio ultimo tra gli ultimi nella considerazione geo politica di uno Stato frammentato come il nostro. In quegli anni mi sono dedicato a un’attività artistica che si nutriva della conoscenza della storia e delle culture locali, ma soprattutto desideravo comunicare agli altri i progetti che avevo in mente. Uno in particolare si realizzò: la nascita a Matera, alla fine degli anni Settanta, di un centro di formazione professionale che per quattro anni mi consentì di attivare un laboratorio per giovani artisti artigiani. Un esperimento di scuola laboratorio che denominai “Misurazioni”.
Credo che questo evento sia stato in quegli anni il momento più esaltante del mio lavoro di artista perché mi ha permesso di verificare le mie capacità di trasferire attraverso l’insegnamento le mie esperienze soggettive alle nuove generazioni e decisi di considerare l’insegnamento come parte integrante della mia attività al punto che l’esperienza maturata nel tempo mi ha consentito, in seguito, di dirigere per quasi dieci anni la direzione dell’Accademia Carrara di Belle Arti di Bergamo.
Oggi cosa è rimasto in te di questa straordinaria esperienza? Quanto è stata determinante per lo sviluppo evolutivo del tuo alfabeto artistico e qual è la traccia profonda che ancora alimenta la tua sintassi espressiva?
Mario Cresci: E’ dal 1991 che vivo e lavoro a Bergamo portando con me il tempo vissuto a Matera e cercando di rendere quella memoria, una memoria attiva in un contesto storico sociale ed economico ben diverso. Qui il tempo e lo spazio della città sono all’opposto del tempo e dello spazio della città dei Sassi e di conseguenza ho affrontato una nuova esperienza come una “second life”, una nuova forma di rientro dal Sud al Nord che inizialmente ho vissuto con difficoltà e che ho dovuto lentamente conoscere e decifrare in tutti i suoi aspetti. Mi sento di includere, tra le cose che normalmente non si scrivono in questi dialoghi anche tra persone amiche, quella della condizione climatica, della luce e del sole che hanno pesato nella mia psiche e nella difficoltà di adattarmi alla città e comprendere le nuove situazioni.
Credo che dopo tanti anni di intenso lavoro all’interno di un pensiero che ho sempre sostenuto, quello di un’arte che non esalta solo il proprio ego, ma che metta invece in relazione l’Io con gli altri, devo chiedere a me stesso di decifrare senza retorica la complessità del mio vissuto alla ricerca del senso delle cose. Questo comporta una riflessione sullo sviluppo evolutivo dei linguaggi dell’arte fortemente integrati con saperi e discipline che vanno dalla scienza, alla tecnica, al pensiero filosofico e che si comunicano agli altri nella misura in cui la nostra ricerca è vissuta intensamente.
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