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Monica Jahan Bose: “Storytelling with saris”| combattere la crisi climatica, con i sari.

Originalissimo progetto artistico e sociale, ‘Storytelling with saris’ racconta il cambiamento climatico attraverso il tradizionale indumento femminile del subcontinente indiano: il sari.

La sua vulcanica ideatrice Monica Jahan Bose, artista, attivista/avvocato ambientalista bengalese-americana, nel 2012 ha intrapreso il progetto in collaborazione con le donne del suo villaggio ancestrale Katakhali, nell’isola di Barobaishdia in Bangladesh, per documentare e divulgare la vita di una piccola comunità remota in prima linea nella lotta al cambiamento climatico, che potrebbe scomparire se non viene intrapresa un’azione globale urgente.

A fronte di difficoltà apparentemente insormontabili, dopo diversi cicloni hanno ripetutamente perso e ricostruito le loro case, la resilienza delle donne di Katakhali è un esempio del ruolo fondamentale delle donne nel combattere i cambiamenti in atto.

In molti paesi in via di sviluppo, nonostante un apporto praticamente nullo al riscaldamento globale, le donne subiscono in modo sproporzionato il suo impatto a causa dell’iniqua distribuzione delle risorse. È ormai universalmente riconosciuto che la loro leadership sarà fondamentale per affrontare l’emergenza climatica.

Dalla sua creazione ad oggi, Storytelling with saris ha viaggiato molto portando le storie delle donne di Katakhali negli Stati Uniti, in Bangladesh e in Europa. I partecipanti sono stati coinvolti in collaborazioni attraverso workshop e invitati a scrivere pensieri e promesse sui sari.  Questi sari della promessa climatica saranno restituiti e indossati dalle donne in Bangladesh.  

Azioni artistiche con stampe xilografiche, scrittura, storia orale, performance e film, mostre e workshop si sono svolti alle Hawaii, Iowa, Maryland, New York, New Jersey, Pennsylvania, Virginia, Washington, D.C., California e Wisconsin negli Stati Uniti; Dhaka e Katakhali in Bangladesh; e a Parigi, Francia, Atene, Grecia e in Italia al MACRO, Museo d’Arte Contemporanea a Roma, dove il progetto è giunto nel 2019 con la mostra The Tides/La Marea.

Abbiamo raggiunto Monica via Zoom a Washington, DC, dove vive e lavora.

 Performance in Katakhali Village by Darchira River, 2020, photo credit: Monica Jahan Bose.

Potresti parlarmi del tuo percorso come artista e in che modo s’intrecciano femminismo, attivismo ecologico e sociale nella tua pratica artistica e nella tua vita?

Monica Jahan Bose: fin da piccola ero interessata alla pittura del paesaggio e al mondo naturale. Ma il mio primo vero dipinto, avevo otto o nove anni, aveva come soggetto una marcia per i diritti delle donne cui partecipai con mia madre, che è una grande femminista: entrambi i miei genitori erano progressisti. Ho studiato pittura e matematica negli USA e in India, e in seguito alla Columbia University School of Law, NY, sono diventata avvocato e attivista per l’ambiente. Queste esperienze sono confluite nel mio lavoro come artista, e nel mio progetto collaborativo eco-femminista a lungo termine, Storytelling with Saris.

Warming Waters Public Art Project, Washington, DC, 2020 (Monica Jahan Bose in collaboration with Robin Bell for projections).
Warming Waters Public Art Project, Washington, DC, 2020 (Monica Jahan Bose in collaboration with Robin Bell for projections). Photo credit Sora Yamahira.

Quando è nato questo progetto e cosa l’ha ispirato? Tua madre e’ stata una figura importante nello sviluppo del tuo Storytelling, puoi parlarmene?

Monica Jahan Bose: È iniziato otto anni fa, e ancora una volta sono stata in parte ispirata da mia madre, che ha avviato un’organizzazione no profit in Bangladesh nel nostro villaggio ancestrale di Katakhali, situata sull’isola di Barobaishdia nel Golfo del Bengala.

È un progetto di eco-responsabilizzazione che coinvolge la scolarizzazione per le donne e l’insegnamento di agricoltura ecologica e adattamento delle colture ai cambiamenti climatici.

Inizialmente ritraevo queste donne come soggetto dei miei quadri, ma poi ho pensato che sarebbe stato interessante coinvolgerle direttamente nella mia pratica. In origine, dodici donne e le loro famiglie erano impegnate nella realizzazione collaborativa di disegni, stampe e scritte sui Sari.

Queste donne sono superstiti di cicloni, tempeste e inondazioni. Inoltre, fino a tempi relativamente recenti, non avevano lo stesso accesso all’istruzione degli uomini. Ora sono in grado di scrivere e leggere e tengono diari sul clima: l’intento è di avere un registro delle loro vite quotidiane attraverso le loro stesse voci, per portare alla luce la lotta di una comunità remota e altrimenti sconosciuta.

Footprint/Apotipoma, Athens, Greece, 2018 - installation view| courtesy Monica Jahan Bose.
Footprint/Apotipoma, Athens, Greece, 2018 – installation view| courtesy Monica Jahan Bose.

Il sari è il mezzo attraverso il quale ti esprimi. Quando hai pensato per la prima volta di usarlo come forma d’arte? E quali sono i valori culturali che attribuisci a questo indumento femminile nel tuo lavoro?

Monica Jahan Bose: Iniziai con la camicetta del sari, intorno al 2007. Vivevo a Parigi e mia madre me ne aveva spedite un paio per me e mia figlia. Aprendo il pacco, pensai di usarla come oggetto pop art in un nuovo dipinto che avevo appena iniziato. Era l’influenza del lavoro dell’artista Pop Jim Dine, conosciuto all’università, autore di una famosa serie di dipinti e disegni di accappatoi. Ma poi, ho iniziato ad usare la camicetta in più dipinti come simbolo della mia identità, del legame con la mia cultura e come simbolo per il corpo femminile in generale.

La camicetta sari rossa sovrapposta ad un sari verde, è diventata una versione femminista della bandiera del Bangladesh. Il disco rosso sulla bandiera del Bangladesh (su sfondo verde) vuole rappresentare in parte lo spargimento di sangue durante la lotta per l’indipendenza della Nazione nel 1971. Allora molte donne furono violentate e ci fu un tremendo genocidio. Dopo la guerra, furono scoperti i luoghi in cui le donne erano state tenute prigioniere, pieni d’indumenti strappati. Alcuni dei miei lavori sulla violenza di genere si riferiscono a questo episodio.

In Storytelling uso l’intero sari come storyboard, e ogni mia installazione e performance è in continuità con quelle precedenti.

Monica Jahan Bose joining dance performance in Katakhali Village, 2020, photo credit: Koli Bennett-Bose.

Il Sari è fatto di sei metri di tessuto non cucito, forse il più antico precursore di molte vesti venute più tardi nella storia, e può assumere molte forme, rappresentare ad esempio il corpo femminile. Tradizionalmente, i sari sono tessuti a mano e la tessitura nella mitologia greca e del sud est asiatico fa riferimento alla continuità della vita, quindi è una bellissima metafora che parla a tutta l’umanità.

Inoltre, i sari non si gettano mai e sono rinnovabili: in Bengala il sari viene sempre riciclato. I sari vengono tenuti per generazioni e quando diventano veramente usurati vengono impilati l’uno sull’altro e cuciti a mano insieme per realizzare i Kantha, la forma di artigianato più importante delle donne nel Bengala, e usati come coperte, scialli o tende.

Monica Jahan Bose: The Storm Winds Are Blowing, 2018 - acrylic on canvas, 31x51 in. | courtesy Monica Jahan Bose
Monica Jahan Bose: The Storm Winds Are Blowing, 2018 – acrylic on canvas, 31×51 in. | courtesy Monica Jahan Bose.

L’acqua è il soggetto di molti dei tuoi progetti. A dicembre 2019 a Roma al MACRO di Roma hai portato al pubblico italiano un’installazione site specific multimediale, e un laboratorio sul clima intitolato The Tides / La Marea, a cura di Simona Amelotti. Puoi parlarmi del concetto di questa mostra e della risposta del pubblico italiano al tuo progetto?

Monica Jahan Bose: l’acqua è un elemento importante nel mio lavoro perché ho molte associazioni con l’acqua, la mia famiglia viene da un’isola, il Bangladesh è attraversato da molti fiumi. Ho un’intera serie di dipinti intitolata all’acqua, che tratta di cambiamento climatico e del modo in cui siamo tutti connessi attraverso l’acqua. L’acqua è fonte di vita, ma si sta riscaldando a causa dei cambiamenti climatici, si gonfia ed evapora e questo provoca inondazioni e piogge devastanti.

 The Tides/La Marea, MACRO Museum, December 2019- installation view | courtesy Monica Jahan Bose.
The Tides/La Marea, MACRO Museum, December 2019- installation view | courtesy Monica Jahan Bose. Photo credit Nandita Ahmed.

Il mio progetto The Tides / La Marea, rifletteva sulla crescita delle maree e includeva un’installazione, una performance, una proiezione video e un audio che poteva essere ascoltato in tutto l’atrio del museo, una canzone sulla marea che canto insieme donne del mio villaggio ancestrale.

Volevo creare qualcosa che assomigliasse all’acqua che monta, ma anche a una cascata. Lo spazio del museo è molto impegnativo, ma l’installazione è stata un successo. Ho invitato il pubblico a unirsi a me nella realizzazione dell’installazione, ho anche creato un laboratorio ‘galleggiante’ sul clima, ho registrato testimonianze sulle esperienze personali del cambiamento climatico ed è stato fantastico, ho raccolto voci da tutta Italia, Europa e nel mondo.

Siamo tutti rimasti colpiti dalle immagini di Venezia, dalla perdita culturale ed economica, questioni che molti paesi devono ora affrontare. Ogni isola del mondo ha il suo patrimonio unico, umano, culturale e mitologico, e se questi luoghi diventassero inabitabili assisteremo a una massiccia perdita culturale.

Puoi descrivere le comunità con cui lavori e che crei attraverso il tuo lavoro, sia negli Stati Uniti che in Bangladesh, e che tipo di collaborazioni hai avviato con queste comunità?

Monica Jahan Bose: Creo nuove comunità attorno a ciascuno dei miei progetti artistici. Quello che facciamo è condividere conoscenza sui cambiamenti climatici.

A Katakhali, le donne mi raccontano le loro esperienze, ad esempio che ora mancano due delle sei stagioni che avevamo in Bangladesh, e io racconto loro le cause del cambiamento, soprattutto riguardo alla combustione di combustibili fossili. Nonostante abbiano un’impronta ecologica quasi nulla sull’isola , non hanno combustibili fossili, auto o elettricità, subiscono le conseguenze della crisi climatica in modo devastante.

Cerco anche di introdurre nuove tecniche agricole, ad esempio piantando alberi di cocco che stanno morendo più velocemente a causa dei cambiamenti climatici, e insegno ‘auto advocacy’, che consiste nell’apprendere a scrivere lettere al governo per chiedere aiuto.

A Washington DC, ho lavorato con donne senzatetto e comunità afroamericane. In luoghi diversi, mi relaziono con organizzazioni femminili e comunità ambientali per formare alleanze. Nei miei seminari, lavoriamo insieme su un unico sari e guardiamo video sui meccanismi di base del cambiamento climatico, che molte persone davvero ignorano.

Chiedo alle persone di scrivere sui sari delle frasi con delle promesse su ciò che possono fare in prima persona per raffreddare il pianeta. Negli Stati Uniti, la maggiore impronta ecologica proviene dagli edifici per uffici, residenze e trasporti, non dal settore industriale. Con il mio approccio pratico e tattile cerco anche di dire che ciascuno di noi ha il potere di fare la differenza, è importante non sentirsi senza speranza e sopraffatti.

The Tides/La Marea, MACRO Museum, December 2019- installation view | courtesy Monica Jahan Bose.
The Tides/La Marea, MACRO Museum, December 2019- installation view | courtesy Monica Jahan Bose. Photo credit Nandita Ahmed.

Nel 2019 sei stata invitata dalla Citta’ di Atene e hai affrontato il problema dei migranti e dei rifugiati in una mostra intitolata Footprint-Apotýpoma a cura di Vasia Deliyianni e Angeliki Grammatikoupolou al Serafio Sports, Culture and Innovation Center. Il titolo faceva riferimento sia al carbonio che all’impronta delle miglia percorse da migranti e rifugiati. Puoi parlarmi brevemente di questo progetto?

Monica Jahan Bose: L’idea centrale di Footprint-Apotýpoma era il ruolo della crisi climatica nell’immigrazione. Ci sono molte ragioni per cui le persone migrano, ma spesso per ragioni economiche che si intrecciano con il cambiamento climatico: la siccità in molte parti del pianeta porta a carestie, guerre e sfollamenti.

In Bangladesh, abbiamo molti agricoltori e pescatori sfollati nelle zone costiere. Si trasferiscono in città e se non riescono a trovare lavoro migrano all’estero. Potrebbero non identificarsi come migranti climatici o rifugiati climatici, ma il clima è sicuramente uno dei fattori.

Footprint/Apotipoma, Athens, Greece, 2018- installation view | courtesy Monica Jahan Bose.
Footprint/Apotipoma, Athens, Greece, 2018- installation view | courtesy Monica Jahan Bose. Photo credit Leah Stoddard.

“Footprint”(impronta) faceva riferimento a impronta climatica (carbon footprint) e all’idea del movimento dei migranti. Apotýpoma in greco significa impronta, compresa quella digitale di controllo al confine; la radice greca “Typo”, come in tipografia, è anche associato alla stampa, un riferimento alla mia stampa sui sari.

È stato abbastanza difficile raggiungere una comunità di rifugiati per motivi burocratici, ma fortunatamente ho potuto lavorare con un’agenzia il ​​cui obiettivo era far incontrare i rifugiati con la comunità locale e diventarne parte, anche attraverso attività culturali.

Abbiamo creato una bellissima installazione di una casa fatta con i sari, e abbiamo tenuto una serie di workshop culminati in una performance dove ateniesi e rifugiati che sono stati invitati a scrivere con pennarelli sulle finestre frasi sul tema di “Casa”. Avevamo cinque traduttori e, anche se si parlavano molte lingue diverse, siamo riusciti a creare una comunità.

Monica Jahan Bose: I’ll Hoist the Sail, 2018 – acrylic on canvas, 36 x 51 | courtesy Monica Jahan Bose.

Pensi che gli artisti in Asia siano più vicini ai problemi ambientali rispetto agli artisti occidentali?

Monica Jahan Bose: forse in Asia le persone sono meno separate dalla natura, specialmente nelle zone rurali e questo può essere vero anche per gli artisti. Ma nella popolazione in generale penso che per le persone che vivono in città non ci sia differenza tra est e ovest sulla percezione del cambiamento climatico.

Com’è essere un’attivista femminista e ambientalista in Bangladesh?

Monica Jahan Bose: Ci sono molte donne in Bangladesh coinvolte in organizzazioni per i diritti umani e femministe, quindi per certi versi il Bangladesh è molto “ospitale ” in questo senso.

Ovviamente c’è anche una parte della popolazione molto tradizionale e iper-patriarcale, che trova che tutto ciò che sfidi queste tradizioni sia pericoloso. 

Credo che molto del lavoro che svolgo possa sembrare oltraggioso ad alcuni gruppi religiosi. Ci sono stati episodi molto violenti negli ultimi anni, contro attivisti gay per esempio. C’è tensione. Voglio presentare il mio lavoro in modo onesto e autentico, ma cerco di restare consapevole di come il mio lavoro può essere visto in maniera diversa in Occidente e in Bangladesh.

Molti stanno interpretando questa pandemia come un segnale che il mondo ha bisogno di una drastica inversione del sistema economico neoliberista che privilegia il guadagno economico di pochi rispetto alla sopravvivenza umana. Tu come la vedi? Pensi che sia davvero possibile un’inversione di tendenza? Speri che la nuova amministrazione USA possa modificarla almeno in parte?

Monica Jahan Bose: la pandemia ci ha sicuramente dimostrato che le azioni umane hanno un impatto diretto sull’ambiente, durante il blocco abbiamo visto diminuire l’inquinamento. Ci ha anche dimostrato che possiamo sopravvivere consumando meno carburante, con meno viaggi, il che significa anche risparmiare denaro. Gli spostamenti e i viaggi sono una parte enorme della crisi climatica. Spero che questa consapevolezza condurrà l’industria e i governi a modi diversi di utilizzare la nostra forza lavoro.

Gli edifici degli uffici, specialmente in America, devono essere costantemente climatizzati perché tutte le finestre sono sigillate. E’ un ambiente di lavoro molto pericoloso durante una pandemia. Spero che questo, i tanti uffici che sono dovuti restare chiusi a Washington perché privi della possibilità di aprire le finestre, porterà a un’architettura più rispettosa dell’ambiente e della salute.

 The Tides/La Marea, MACRO Museum, December 2019 - installation view | courtesy Monica Jahan Bose.
The Tides/La Marea, MACRO Museum, December 2019 – installation view | courtesy Monica Jahan Bose. Photo credit Nandita Ahmed.

Ovviamente, sono molto felice dell’uscita di Donald Trump e del Partito Repubblicano, e che l’amministrazione Biden abbia affermato che rimarremo nell’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici. Ma spero ci sia altro.

Finora, le persone che sono state annunciate dal nuovo governo sono molto competenti ma non pensano necessariamente in un modo nuovo e radicale. Dobbiamo fare cambiamenti più drammatici del modo in cui va il mondo.

Uno dei motivi per cui le persone hanno votato per Trump era perché volevano un grande cambiamento. Spero che un solo “back to business as usual” (ritorno alla normalità) non sia la sola agenda della nuova amministrazione, o potremmo essere da capo tra quattro anni.

Siamo in un momento di svolta su questo pianeta e dobbiamo trovare rapidamente nuove idee audaci. Dobbiamo portare una nuova generazione di pensatori più creativi e spero che ciò accada a breve, le persone vogliono un’azione reale.

Alessandra Alliata Nobili

Founder e Redazione | Milano
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