Parlando con Michelangelo Consani del suo lavoro durante questa intervista, ho ripensato a un termine coniato in un saggio della contro-cultura anarchica negli anni 80 : TAZ, o zona temporanea autonoma, uno spazio creativo e mobile di ribellione, che non cede alla violenza rivoluzionaria.
Ogni progetto di Michelangelo è una zona autonoma dagli effetti della mercificazione dell’arte. Zone, o meglio processi, ancorati nella vita reale, che spesso non solo immaginano, ma verificano le possibilità di cambiamento nel nome della decrescita. Rifiutando forme di spettacolarizzazione, l’artista scava nella storia per destabilizzare le narrazioni egemoniche, denunciando il rapporto corrotto fra verità e potere. I suoi interventi hanno negli anni spaziato da problematiche legate alle risorse energetiche all’agricoltura sostenibile, dal baratto alla tecnologia, dall’economia alla relazione tra esperienza empirica e scienza ufficiale.
Michelangelo Consani ha esposto in gallerie e musei in Italia e nel mondo, fra cui la Quadriennale di Roma, la Fondazione Pistoletto a Biella, il Museo Pecci di Prato e Milano, il Kunstraum di Monaco, la Side 2 Gallery a Tokyo, Glassbox a Parigi e Zirkumflex a Berlino. Ha partecipato alla Triennale di Aichi in Giappone, alla Biennale di Dakar e al Watou Kunstenfestival in Belgio. Nel 2010 ha ricevuto il premio come miglior artista under 40 dal EX3 Center of Contemporary Art di Firenze.
Una costante del tuo lavoro è il tema della decrescita, indagato attraverso una rilettura della storia ufficiale e degli eventi rimossi dalle narrazioni dominanti. In questa chiave hai spesso trattato episodi legati alle sorgenti d’energia che alimentano l’economia della crescita, dal petrolio al nucleare. Potresti farmi qualche esempio?
Michelangelo Consani: Il mio lavoro parla di risorse, energia e decrescita ormai da moltissimi anni, da tempi non sospetti. Mi sono ispirato alle teorie del filosofo teologo Austriaco Ivan Ilich e di conseguenza a Serge Latouche che ha studiato molto bene Illich. In una mostra del 2015 intitolata “Le cose potrebbero cambiare” alla Prometeo Gallery di Milano, rileggevo eventi legati al nucleare attraverso gli esperimenti compiuti da francesi e americani, relazionandomi al presente.
In mostra intrecciavo come sempre diversi discorsi, a partire da un video sui maiali abbandonati a Fukushima, nell’area dove avvenne l’incidente del 2011. Questo lavoro era messo in relazione ad una figura storica, Sebastien La Prestre da Vauban, ingegnere militare e maresciallo di Francia alla corte di Re Sole, autore di un trattato, la “Cochonnerie”, che calcolava matematicamente la produzione totale di una scrofa nell’arco di dieci anni, dando inizio, a scopo di nutrire l’esercito, a una forma precoce di allevamento intensivo. Vauban è più conosciuto come inventore di un famoso tipo di fortificazione, chiamata “pré carré”, usato fino alla seconda guerra mondiale.
Ho collocato il busto di Vauban in una struttura in ferro appoggiata sul pavimento, la cui forma ricordava il pré carré. Il lavoro comprendeva anche la formula matematica di moltiplicazione dei maiali espressa nella Cochonnerie. Nel mio busto, inoltre, viene corretto un dettaglio, un falso storico: nei ritratti dell’epoca, Vauban è spesso rappresentato con un vistoso neo sulla guancia, ma in realtà questo era il foro di una pallottola che il maresciallo si era preso in pieno viso. Nel mio busto riappare il buco sulla guancia.
Inoltre, quadri monocromi composti con le alghe radioattive pescate nella baia di Fukushima, problema tutt’ora aperto, si confrontavano con una cassa/altoparlante della marca Marshall, che nel nome ricorda i test nucleari condotti 60 anni fa nell’omonimo atollo. Dalla cassa acustica usciva una voce robotica, ottenuta al computer attraverso un software. La voce raccontava una favola per adulti e bambini dal finale positivo ottenuta utilizzando informazioni di eventi legati al nucleare tratti da Wikipedia.
Tutto ciò per comprendere meglio la memoria storica e la facilità con la quale essa è stata falsificata nel tempo dal potere dominante. Inoltre la riflessione continua, volgendo l’interesse nei confronti di un atteggiamento comune e superficiale che ci spinge a utilizzare informazioni derivanti dalla rete, da fonti non verificabili, come accade per esempio con Wikipedia e che noi, a prescindere, prendiamo per buone.
Un tuo progetto del 2011 al CAMeC Piano zero a La Spezia, intitolato “Ancora ancora la nave in porto. Amoco Milford Haven files” rifletteva sull’economia del petrolio e sul suo secolo di riferimento, il 900. Anche in questo caso la mostra si dipanava attraverso analisi parallele di argomenti e ambiti diversi per comporre un unico discorso.
Michelangelo Consani: Per me è molto importante parlare degli argomenti che m’interessano da sempre veicolandoli attraverso situazioni diverse che compongono un unico discorso. Altrimenti m’annoio! La mostra al CAMeC, pianoZero che raccoglie i lavori di artisti del ‘900 della collezione Cozzani, ruotava intorno a un video tratto dal film di Marco Ferreri “Il seme dell’uomo” del 1969. Io amo moltissimo il cinema italiano e Ferreri, cui sono giunto per via di Marcello Mastroianni, il mio attore preferito, rimanendone folgorato. In fondo, anche Ferreri è un personaggio ‘marginale’ del cinema.
Il film trattava della sopravvivenza della specie umana dopo un olocausto nucleare. Ho ragionato sul museo della memoria gestito dal protagonista nel film, dove ogni oggetto, da una forma di parmigiano ad un quadro di Rembrandt, ha il medesimo valore di ‘reperto’.
È stato ricreato il set del film con gli oggetti del ‘museo dell’umanità’ del film di Ferreri, accostato ad una quadreria di opere dalla collezione Cozzani, scegliendo pezzi degli anni settanta legati al tema della produzione economica di massa, ad esempio opere della Pop Art. Questo voleva sottolineare un’equivalenza fa arte e oggetto, e il desiderio simultaneo di economia e di possesso di cui l’oggetto d’arte è investito nel nostro sistema.
In un’altra stanza un video mostrava l’esplorazione subacquea della Amoco Milford Haven, oggi diventata un’attrazione turistica. La petroliera esplode, affondando con 90.000 litri di greggio nel Golfo di Genova il 12 aprile del 1991. Gran parte del petrolio è ancora sui fondali. Lo stesso giorno, il traghetto Moby Prince entra in collisione nel porto di Livorno con la petroliera Agip Abruzzo, uccidendo nell’incendio 190 dei 191 passeggeri.
A livello mediatico quest’ultimo incidente prese il sopravvento a causa delle vittime, tuttavia il disastro della Haven ha provocato la maggior catastrofe ambientale mai avvenuta nel Mediterraneo. In mostra, un diagramma con la curva di Hubbert, diagramma che mostra la curva ripida verso l’esaurimento delle risorse petrolifere dopo un periodo di stabilità. La caduta della curva richiamava l’inclinazione della petroliera che affonda.
Tengo particolarmente a specificare che per l’intera mostra chiesi un budget di 350 Euro, per essere coerente con il punto centrale della mostra, il desiderio di un’economia sostenibile.
Ho letto di un altro tuo progetto, sempre intitolato “Ancora ancora la nave in porto”, ma in questo caso la fonte esauribile intorno a cui ruotava la mostra era il marmo di Carrara. Qual’e’ la relazione fra i due progetti?
Michelangelo Consani: il progetto a Carrara, sempre nel 2011, non è mai stato portato a termine perché è stato censurato, ed è per questo che il titolo è stato ripetuto al CAMeC. Il lavoro fu commissionato in occasione del Simposio di Scultura di Carrara. Il progetto faceva seguito ad una mostra del 2008 realizzata alla Galleria Nicola Ricci, che ragionava sulla distruzione della montagna per interessi economici, e sottolineo privati, e sulla mancata ridistribuzione dei proventi delle cave sul territorio. A Carrara l’idea era portare l’attenzione sul lavoro nei laboratori del marmo e sull’uso dei detriti, soprattutto le polveri, che allora erano molto usati per la produzione di dentifrici.
Il progetto avrebbe preso avvio all’uscita del casello autostradale, dove le persone erano invitate a proseguire a piedi lungo il percorso dei laboratori, per rendersi conto delle condizioni lavorative, molto difficili, degli operai. Lungo questo tragitto si sarebbe potuta osservare la montagna sventrata, ridotta a un dente cariato, per poi arrivare alla sede della mostra dove sarebbe stata esposta la mia scultura, un busto ispirato ad un’opera di Desiderio da Settignano, svuotato e riempito di dentifricio alla menta. La prima cosa che avrebbe colpito i visitatori sarebbe stato il forte profumo della menta. L’evento fu cancellato a pochissimi giorni dall’inaugurazione, e il busto distrutto.
Ti confesso che non sono così sorpresa…
Michelangelo Consani: io invece fui sorpreso, non sono certo il tipo d’artista in grado di sollevare un polverone mediatico.
DYNAMO PROJECT Biciclette contro il blackout! il progetto che presentasti a Centro EX3 a Firenze nel 2010, era invece una critica al pregiudizio razziale.
Michelangelo Consani: L’idea centrale della mostra era la non-spettacolarizzazione. È una performance che è sempre stata erroneamente associata a un progetto di Maurizio Cattelan, quando nel concetto era tutt’altra cosa. Il lavoro era dedicato a Walter Marshall Taylor (1878-1932), ciclista afroamericano che nonostante venisse zavorrato nelle gare per bilanciare il vantaggio muscolare allora attribuito agli afroamericani, vinse nel 1899 il titolo mondiale di velocità. Le corse ciclistiche in pista furono poi proibite agli afroamericani fino al 1999.
L’installazione comprendeva un muro di cartongesso che divideva lo spazio. Dietro al muro, invisibili agli spettatori, tre ragazzi africani del quartiere, pagati per la serata della performance, pedalavano su altrettante biciclette. I ragazzi erano stati scelti perché frequentavano quello spazio quando era un centro sociale (poi trasformato in spazio espositivo). L’energia della pedalata alimentava una lampada Fortuny, che con una luce sfarfallante, illuminava a intermittenza la sala, dove si ascoltava il suono del respiro affannoso dei ciclisti e il loro battito cardiaco amplificato. Il riferimento a Mariano Fortuny non era casuale, dal momento che Fortuny era un commerciante di tessuti che provenivano dalle piantagioni che utilizzavano schiavi africani.
Mi piace anche ricordare che per realizzare questo progetto ho lavorato insieme al mio amico Paolo Thrull nella sua officina di Livorno, che progetta e realizza forcelloni per il moto GP, quindi siamo passati dalle moto alle biciclette.
Altra curiosità alla quale tengo molto è che sempre in officina abbiamo realizzato, per questo lavoro, una lampadina a led con impanatura industriale (che nel 2009 non esisteva in commercio) tornita a mano con i led estratti da gli occhi di alcuni orsetti di pelouche comprati al market cinese.
Spesso il tuo lavoro è molto poetico, soprattutto dove entra in gioco la tua storia di vita. Tornando al tema dell’energia, lo hai trattato in modo simbolico e personale in un lavoro del 2008, intitolato “Abbasso il grande vetro”, esposto a White project, Pescara.
Michelangelo Consani: Il mio lavoro si genera sempre da situazioni di vita legate alla mia storia personale. “Abbasso il grande vetro”, titolo di una mia opera che per certi versi è un omaggio al grande vetro di Marcel Duchamp per altri la negazione dello stesso, è una scultura in movimento composta da un serbatoio bucato, da una leva d’alluminio di 7 metri e mezzo e da un contrappeso. Inizialmente il serbatoio, pieno d’acqua (si tratta della borsa dell’acqua della mia nonna!) poggia a terra. In un tempo lunghissimo, circa 12 ore, il serbatoio si svuota. Il flusso d’acqua cambia l’equilibrio e il serbatoio sale verso l’alto mentre il peso si sposta a terra.
Il lavoro, realizzato prima che mio padre morisse, ragionava sul passaggio da uno stato all’altro, sulla perdita della vita e delle risorse. L’oggetto rimaneva in equilibrio per un tempo abbastanza lungo, per poi precipitare abbastanza rapidamente dall’altra parte, richiamando la curva di Hubbert. Il contrappeso, color verde Kawasaki (un colore che compare spesso nel mio lavoro) era un omaggio alla moto Kawasaki verde con cui mia mamma fu accompagnata (in preda alle doglie!) all’ ospedale da mio zio il giorno in cui nacqui.
Lo scorso anno, al PAV Parco D’Arte Vivente a Torino, in occasione della mostra RESISTENZA/RESILIENZA a cura di Gaia Bindi e Piero Gilardi, hai presentato una scultura intitolata “Sopra i figli dei figli il sole!” Un daino in bronzo con una patata sulla testa. Anche quest’opera, se non sbaglio, è legata alla tua esperienza personale, me ne potresti parlare?
Michelangelo Consani: Per raccontare il tema della mostra, che porta il titolo di una poesia di Pier Paolo Pasolini, molti artisti avevano presentato degli orti, trattandosi di un parco all’aperto. Ma io sono molto critico sugli orti, che credo debbano essere necessariamente autentici e fruttiferi. Quindi ho presentato una scultura in bronzo, appunto il daino, con una patata, mia cifra stilistica, sulla testa.
Il daino, in gesso, mi fu donato da uno scultore quando nacqui, un’altra figura relativamente ‘marginale’ e particolare. Infatti lavorò sia per il regime fascista, che gli commissionò una maschera di Galeazzo Ciano, sia, in seguito per i comunisti, con un monumento al Partigiano. L’idea di un artista che lavora su commissione mi sembrava attuale. Inoltre, non mi piace l’idea che l’arte venga politicizzata.
La scultura del daino mi ha seguito durante tutti miei traslochi; quando ero bambino i miei amici lo usavano come cavallo a dondolo, e nel tempo ha perso i pezzi, le orecchie, una zampa…Recentemente è caduta su un fianco, praticamente sfasciandosi. Ne ho fatto una fusione in bronzo, nel tentativo di bloccare un momento e di fermare il tempo, di cui ho una paura fottuta. Allo stesso tempo, la patata sulla testa, germogliando, contraddice l’idea di poter fermare il tempo. La fusione è anche un omaggio all’artista scomparso, che essendo morto in povertà non poté mai realizzarla.
Pur utilizzando un materiale come il bronzo, la scultura mostra tutte le sue fragilità.
A livello formale, il tuo approccio alla scultura è volutamente “anti- monumentale”, spesso le tue sculture poggiano a terra, o sono montate su strutture effimere o precarie. Penso ad esempio a un lavoro che hai presentato Tokio, alla SIDE 2 Gallery nel 2014: due teste in marmo nero che poggiavano su bancali, con in mezzo la tua iconica patata…
Michelangelo Consani: Nel mio lavoro cerco di essere il meno possibile spettacolare. Tutte le mie sculture tendono ad essere silenziose e vorrei che fossero opere aperte. Forse alcune delle statue che ho dedicato a Fukuoka potrebbero essere definite ‘celebrative’, anche alla luce della sua recente rivalutazione da parte di chi s’interessa di decrescita e agricoltura.
In Giappone nel 2010 quando fui invitato da Akira Tatehata, Masahiko Haito, Hinako Kasagi, Pier Luigi Tazzi e Jochen Volz alla prima edizione della AichiTriennale presentai una grande installazione costituita da un video realizzato looppando la scena iniziale del film Riso Amaro di Desantis e una costellazione del cielo boreale costituita da fotografie di scene agresti.
Inoltre nell’ombra della sala si trovava un busto di Fukuoka, proprio nella città in cui l’agronomo fu fischiato dai suoi concittadini durante l’Expo universale. Il busto conteneva dei semi che germogliando lentamente sgretolavano la statua. Un monumento non-monumento dunque.
Le due teste cui hai fatto riferimento erano, nel contesto della mostra alla SIDE2 Gallery a Tokyo intitolata “Nove elefanti bianchi e una patata” una metafora di Oriente e Occidente. Il marmo nero del Belgio, ormai rarissimo, che utilizzavo nelle teste, faceva riferimento allo sfruttamento di risorse esauribili. Le teste erano in origine opere in gesso eseguite al mio terzo anno d’istituto d’arte, poi scannerizzate e riprodotte in marmo per la mostra in Giappone.
La patata marcava un preciso punto geografico, la depressione caspica, punto di demarcazione fra Oriente e Occidente. Mappando la galleria da questo ipotetico centro, avevo collocato delle patate colorate che germogliavano durante la mostra. Ogni patata rappresentava un personaggio ‘marginale ‘della Storia. Nel titolo, ‘elefanti bianchi’ faceva riferimento al carattere raro di questi personaggi.
Le patate erano state posizionate in corrispondenza del luogo dove realmente questi personaggi hanno vissuto. I colori delle patate erano ripresi in sequenza in un wall-drawing, dedicato a Pier Luigi Ighina, assistente di Guglielmo Marconi, mai riconosciuto dalla comunità scientifica ufficiale. È curioso che il mio wall-drawing del 2014, fosse formalmente e concettualmente molto simile all’ultimo lavoro, nel 2016, di Emilio Prini, di cui sono stato assistente e che stimo molto. È molto improbabile che Prini fosse a conoscenza del mio wall drawing, ma mi piace pensare che anche se solo a livello energetico, il nostro lavoro si sia in qualche modo incrociato.
A proposito di Pier Luigi Ighina, è un personaggio che ami e che ha ispirato altri lavori, se non sbaglio.
Michelangelo Consani: In realtà a lui s’ispira un progetto che dovevo installare in Giappone in un parco, ma che per motivi burocratici, tecnici ed economici ancora non ho potuto realizzare. Si tratta della Valvola Antisismica di Ighina, da lui progettata per prevenire i terremoti scatenati da campi elettromagnetici. È un grande oggetto colorato composto da due tronchi di cono uniti alla base, come una grande trottola. Una parte della valvola deve essere interrata di sette metri. Lo scorso anno lo proposi quando fui invitato al PAV da Piero Gilardi, ma anche in quest’ occasione per motivi tecnici ho dovuto rinunciare al progetto, cui però tengo molto, e che spero di realizzare in un prossimo futuro.
In una precedente intervista hai
affermato che il tuo interesse per le figure marginali della storia è ancorato
nella convinzione che proprio da questi personaggi può nascere un cambiamento
di direzione. Per quale motivo?
Michelangelo Consani: Perché hanno vissuto fuori dal sistema dominante, e la loro ambizione non è stata il potere, ma l’azione per gli altri, senza imporsi. Si sente spesso parlare di pratica dell’arte: per me questi personaggi praticavano la vita.
Li considero come “dei rivoluzionari fili di paglia” che da soli contribuiscono silenziosamente a un nuovo mondo, sono discreti e per sentirli bisogna fare silenzio mettere l’orecchio vicino, vicino: parlano con un lieve mormorio.
Per dirla alla Giannozzo Pucci editore per l’Italia di Masanobu Fukuoka “… Il filo di paglia è fuori dalla storia, è contro la storia, è prima e dopo la storia. La rivoluzione del filo di paglia è possibile a ciascuno di noi, per scelta…”
Nel tuo caso, si può proprio dire, arte e vita coincidono…
Michelangelo Consani: È così, ma non vorrei che questa mia attitudine personale suonasse eccessivamente ‘romantica’! Quello che non amo affatto è la costruzione a tavolino di un oggetto, e non di un discorso, attorno ad un tema preordinato. Un discorso che è frutto di una ricerca e di una storia da condividere con gli altri, non da fruire in solitudine.
Questo mi fa pensare ai diversi progetti che hai realizzato che hanno un significato per la comunità, dal baratto ai forni solari…
Michelangelo Consani: I due progetti sono legati, da un primo progetto Barter (baratto N.d.A.) in Olanda nasce quello dei forni solari, che ho poi presentato in vari luoghi. Barter era un’indagine sulle reali possibilità del baratto, includendo i punti deboli di questo progetto, ed evitando di cadere nel solito ‘temino green’. Per quanto riguarda “Barter: the solar coockit project” del 1998, mi sono documentato sul web guardando diversi progetti, che come quelli di Ighina sono disponibili gratuitamente sul web. Ho poi messo in collegamento diversi progettisti, esponendo i loro progetti nella mostra “Seek-refuge” all’interno della 11a Biennale Internazionale d’Architettura a Venezia. Io esposi una cucina solare realizzata dentro ad un ombrello, invenzione già esistente da me potenziata. Negli anni successivi ne ho sviluppato una più potente, sempre da un progetto preesistente, poi presentata a Made in Filandia di Pieve a Presciano e a Ponte Vecchio a Firenze.
Ho ancora a casa un prototipo che raggiunge temperature elevatissime. L’ avevo prodotto per una Biennale di Dakar, dove avrei poi voluto produrlo in serie per donarlo, ma purtroppo non è stato possibile per motivi di budget.
Le singole opere all’interno tuoi progetti compongono sempre una complessa costellazione di riferimenti e rimandi. Così è anche per la tua iconica pistola in ceramica che riproduce la pistola di Dillinger, gangster romantico nel film “Dillinger è morto”, ulteriore omaggio al cinema di Ferreri. Anche quest’opera ha una storia complessa…
Michelangelo Consani: Premetto che quello che più mi spaventa è una lettura superficiale del mio lavoro: la superficialità contraddistingue la nostra epoca. Al di là di ciò che è evidente, nel mio lavoro esistono situazioni che vanno scoperte, approfondite e analizzate. La pistola racconta una storia nascosta. L’ho presentata per la prima volta a Bologna nel 2011 alla Galleria Sponda Fabio Tiboni, nella mostra “La festa è finita”.
In realtà nella mostra “La festa è finita”, presentai la forma in gesso che sarebbe servita successivamente a colare la pistola per ottenere la ceramica.
Vorrei spendere due parole sulla mostra bolognese che era una specie di festa dove immaginai di invitare una serie di personaggi rappresentati da sculture e video. La mostra era alimentata da un generatore a benzina, l’esibizione (la proiezione dei video e l’illuminazione) terminava col finire del carburante. Tra i vari personaggi che avevo invitato c’erano Dillinger il gangster americano, Michel Piccoli e Marco Ferreri.
Il tema era appunto la decrescita, per cui citavo “Dillinger è morto”, film che contiene una critica estrema alla società dei consumi e della produzione. Nel film un marito annoiato, Michel Piccoli, trova una pistola nella credenza e la dipinge mentre guarda i filmini delle vacanze. In quel momento ha un’epifania, vede la sua vita vuota e inutile, e decide di fuggirne e si disfa della moglie, sparandole.
Mi ha intrigato un particolare: la pistola compare, già dipinta di rosso a pois, in un precedente film di Ferreri: uno scarto temporale curioso. Inoltre ho sempre pensato che questo oggetto fosse un’opera di Mario Schifano per due motivi: Dillinger, così come altri film di Ferreri, è stato filmato a casa di Schifano, amico di Michel Piccoli, e poi l’estetica ‘Pop’ dell’oggetto. Non lo saprò probabilmente mai: cercai d’incontrare lo sceneggiatore di Dillinger, che scopersi essere lo zio di Marco Bazzini, mio conoscente e al tempo direttore del Museo Pecci, ma non mi fu mai possibile.
Dal momento che da sempre la tua pratica artistica ragiona sulle possibilità di un futuro diverso e più sostenibile, vorrei concludere chiedendoti se pensi che la pandemia potrebbe portare a una correzione di rotta in questo senso…
Michelangelo Consani: Non sono ottimista, non credo che le persone siano cambiate. Non ho visto pacatezza su questo argomento, anzi, un gran scatenarsi di polemiche sui social e non. Il virus avrebbe dovuto insegnarci a livellare questa aggressività, ma non è successo. Aggiungo anche che la natura ci ha dato grandi segnali di ripresa durante questo periodo, e per tutta risposta gettiamo guanti e mascherine ovunque…
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