Rileggendo questa intervista, realizzata ormai 10 anni fa, mi accorgo che è tuttora di grande interesse. Davide Boriani dimostra sempre una grande chiarezza di pensiero ed una profonda consapevolezza di quanto fatto a partire dalla fine degli anni ’50 per i venti anni successivi. Dalle sue parole risulta evidente infatti che negli anni ’60 e ’70 alcuni artisti italiani hanno contribuito a un grande ed essenziale balzo in avanti della storia dell’arte internazionale. Non solo per le questioni poste in campo, ma anche per il metodo di lavoro e per i risultati ottenuti. Il momento e le azioni di questi artisti hanno rappresentato senza dubbio una rottura epistemologica nel mondo dell’arte, gettando solide fondamenta e tracciando percorsi fecondi che non sempre le generazioni successive hanno saputo sfruttare pienamente.
Negli anni ’60 sono attivi in Italia e in Europa diversi gruppi di artisti uniti dalla necessità di superare una concezione dell’arte fondata sul gesto lirico individuale. Quali sono le basi teoriche su cui si è sviluppata la tua attività di ricerca e quella del Gruppo T e che vi hanno contraddistinto nel panorama di quell’epoca?
Davide Boriani: Trasformazione, tempo, caso, e la necessità di superare metodi convenzionali e pratiche sempre più estenuate, erano distanze latenti delle arti visive. Sul finire degli anni ’50 per l’informale e per le altre tendenze che costituivano il panorama dell’avanguardia era prevedibile uno stato di crisi. Il lavoro dell’artista si era ridotto al puro gesto esistenziale, i dripping di Pollock, il taglio di Fontana, il Blu di Klein segnavano l’approssimarsi a un punto zero raggiunto il quale, per noi che cominciavamo allora, si poneva un problema: che fare? Tornare indietro, ripercorrendo a ritroso le pratiche dell’arte ci sembrava improponibile. L’ha poi fatto la Transavanguardia. Meglio andare avanti, magari prendendo spunto da qualche utopia non realizzata delle avanguardie storiche; e addentrarsi con la ricerca in territori non ancora esplorati. Ritenevo esaurite le possibilità di articolare nuovi linguaggi all’interno delle tre dimensioni della pittura e della scultura; così cominciai a pensare che l’introduzione di una quarta dimensione – il tempo – potesse ridare potenzialità comunicativa alle arti visive; più che un salto di qualità, sarebbe stato un salto di categoria.
Ebbi modo di leggere L’Evolution creatrice di Bergson. L’idea bergsoniana di realtà come “divenire”, l’inscindibilità nel continuum spazio-tempo di ciò che chiamiamo spazio e tempo, diedero la base teorica necessaria ad ipotizzare una soluzione possibile. Percepiamo il tempo dalle modificazioni che questo imprime allo spazio: banalmente, il movimento delle lancette sul quadrante di un orologio, ma anche la sagoma di un camion che entra ed esce dal campo visivo, o l’alternarsi di giorno e notte. Considerando l’opera come una realtà concreta, e non come una rappresentazione simbolica della realtà, era possibile accentuare la trasformazione dei suoi connotati spaziali, per rendere percepibile la concreta presenza del tempo. Modificare in tempo reale, (cioè nell’hic et nunc del processo percettivo) una struttura spaziale significava cambiarne ad esempio i rapporti compositivi, modificare una forma o farla andare da un punto all’altro dello spazio delimitato dell’opera, far variare superfici e colori, fare apparire e scomparire segni. Tutto questo sarebbe stato praticamente possibile utilizzando il movimento, inteso come movimento reale e non simbolico. Per realizzare “opere in divenire” che si trasformassero con il movimento, il repertorio usuale delle arti, tele, pennelli, colori non serviva. Occorreva sperimentare metodi, materiali, tecniche nuove, ivi compresi motori e meccanismi. Si potevano utilizzare le possibilità di comunicazione estetica di materiali e tecniche esistenti nel contesto quotidiano, ma ancora estranee al mondo delle arti. E con ciò mettere il progetto al posto del gesto, rivalutare la razionalità piuttosto che l’ispirazione, lavorare sul tempo e non solo sullo spazio. Le opere in divenire non sarebbero state classificabili come pittura o scultura, al più come “macchine a funzionamento estetico” generatori di informazione visiva continua, opere che variassero in modo imprevedibile ed irreversibile. E qualcuno le definì poi opere cinetiche.
In quel periodo è stato riconsiderato anche il ruolo dello spettatore, che funzione aveva per voi lo spettatore all’interno del processo artistico?
Davide Boriani: Una funzione strumentale quale componente randomica, un ruolo attivo complementare a quello dell’autore e con gli ambienti interattivi, quello di componente indispensabile dell’opera. All’inizio un ostacolo da superare era la ciclicità del movimento meccanico, che avrebbe limitato la durata reale di variazione dell’opera in un ciclo limitato nel tempo, come un film una volta registrato sulla pellicola. Occorreva una componente aleatoria che turbasse la ciclica ripetitività del meccanismo; e questo compito fu affidato allo spettatore, invitato ad intervenire sull’opera, a modificarla, entro limiti necessariamente precostituiti ma in tempi e modi imprevedibili anche per gli stessi autori. L’opera in divenire si proponeva così come un particolare caso di quella “opera aperta” che Umberto Eco stava allora teorizzando; di cui lo spettatore da contemplatore passivo diventava co-autore. Era il concetto di base di quella che fu poi definita interattività.
Il concetto di interattività assume pieno significato con la realizzazione degli “ambienti”. Qui lo spettatore, che precedentemente veniva chiamato ad intervenire, viene ora invitato ad “entrare” in uno spazio. Come sei arrivato a questo ulteriore salto di categoria, così determinante per gran parte della ricerca artistica degli anni successivi?
Davide Boriani: L’interazione tra opera e spettatore è stata evidenziata soprattutto dagli ambienti; ma il concetto era in qualche modo già implicito nella scelta di fare opere in divenire, a quattro dimensioni. Superate con ciò le categorie tradizionali di pittura, scultura, architettura, era possibile ipotizzare anche “architetture a quattro dimensioni” ossia spazi abitabili in variazione. In Miriorama 1 il gruppo T realizzò il Grande Oggetto Pneumatico, opera definita già nel 1960 “ambiente a volume variabile”. In questo primo ambiente l’interattività si realizzava più sul piano fisico che su quello percettivo: i grandi tubolari, gonfiati e sgonfiati, strutturavano ogni volta in modo diverso lo spazio della galleria, costringendo gli spettatori a muoversi e spingendoli fuori. (Il che rivela anche le nostre, mai rinnegate, simpatie dadaiste). Negli anni successivi sviluppammo la ricerca sul concetto di ambiente dando maggior attenzione alla componente percettiva. Per una corretta percezione di un messaggio estetico basato sui valori di mutamento, era (ed è) necessario eliminare tutto quanto non fosse variabile, ridurre cioè al minimo indispensabile ogni dato spaziale fisso.
Per questo nella dichiarazione Miriorama 2 parlavo di “fenomeni spazio-temporali nel loro individuarsi elementare (…) superfici, forme, punti individuati nello spazio secondo valori di estensione colore allineamento più semplici (…) soggetti a una variazione continua o discontinua …” Ma anche davanti a un’opera cinetica il fruitore era ancora posto in un contesto spaziale di tipo tradizionale: gli si chiedeva di concentrarsi sull’opera, ignorando ed escludendo tutto quanto entrava nel suo campo visivo, che non fosse pertinente all’opera. Per un’efficace comunicazione estetica tutto quello che non è indispensabile è nocivo; considerando quindi anche lo spettatore in un’ottica nomenologica, era necessario porlo in un contesto percettivo il più possibile privo di tutte le informazioni non necessarie (eliminare cioè il cosiddetto “noise”, o rumore di fondo della teoria delle comunicazioni). Lo spettatore avrebbe dovuto trovarsi in uno spazio totalmente informativo, libero di muoversi e di esplorarlo liberamente senza doversi ritagliare una particolare zona di informazione privilegiata. Il che significava andare oltre l’opera cinetica da appendere alla parete o da porre su una base, ma realizzare un’opera cinetica abitabile, psicologicamente e fisicamente, dallo spettatore. Non ritenevo sufficiente la semplice giustapposizione d’immagini variabili sulle superfici dell’ambiente. Il ruolo attivo dello spettatore doveva agire sulla struttura percettiva unitaria dell’ambiente. Per questo realizzai nel 1964 il primo ambiente interattivo “Spazio + linee luce + spettatore”, la cui struttura percepibile è formata da 32 sottili raggi di luce provenienti dalle pareti e dal soffitto. In assenza di fruitori l’opera non esiste, è solo una stanza buia. I movimenti dello spettatore sono rilevati da sensori posti nel pavimento; ogni sensore attiva tre raggi di luce che indicano, secondo i tre assi ortogonali x, y, z, la sua posizione nell’ambiente. Componente attiva e indispensabile dell’ambiente è quindi lo spettatore, che non è soltanto messo al centro dell’opera, ma è “il centro dell’opera”.
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