A Milano, la Galleria Fatto ad Arte, in collaborazione con la Galleria Ca’ di Fra’ presenta “Terre segnate”, una selezione di ceramiche di recente produzione di Agostino Ferrari. Alla ricerca che l’artista milanese conduce sul segno dai primi anni sessanta, la città ha dedicato una serie d’eventi nel 2018, inclusa una grande personale al Museo del Novecento.
Opere plastiche pensate per essere appese alla parete, le Terre segnate continuano un discorso sulla materialità del segno iniziato quasi cinquant’anni fa con il Teatro del Segno, in cui l’elemento segnico acquistava un corpo concreto attraversando la bidimensionalità della superficie.
La particolarità delle Terre segnate è infatti un elemento metallico, segno snodato e flessuoso che esce da una fessura o da un orifizo praticato in un corpo di ceramica di forma rotondeggiante. Il segno, che spicca sui toni cromatici delicati della ceramica tra l’avorio e l’ocra chiaro, si snoda flessuoso seguendo più o meno l’andamento morbido della base. A seconda della luce, l’ombra del segno si proietta sulla parete con effetti scenografici.
Abbiamo incontrato Agostino Ferrari alla Galleria Ca’ di Fra’ per parlare dei nuovi lavori, e tracciarne la genesi attraverso lo sviluppo della sua ricerca, da quando, nel 1962, fondo’ insieme a quattro compagni d’avventura il gruppo del “Cenobio”, in una Milano che allora era un centro europeo di grandi sperimentazioni e la fabbrica di tanti grandi talenti.
Vorrei che mi parlasse delle Terre Segnate, le ceramiche di recente produzione. Come è giunto a questa nuova fase di ricerca?
Agostino Ferrari: Le Terre segnate sono uno sviluppo dei ProSegni, che completano un lavoro intrapreso nel 2000. Nei ProSegni il segno esce dallo spazio oltre alla tela e l’attraversa per poi rimanere sospeso, e in parte definirsi nuovamente come simbolo inciso o dipinto sulla sua superficie. Nelle Terre Segnate, l’intero processo creativo nasce esattamente nello stesso modo, ma il supporto è in ceramica.
Per spiegare ai nostri lettori da dove questo processo creativo ha origine, torniamo al suo debutto, che avviene nel periodo in cui Lucio Fontana e Piero Manzoni erano figure chiave dal cui lavoro presero spunto una costellazione di ricerche, inclusa quella segnica degli artisti del gruppo del Cenobio, di cui lei faceva parte. Come ricorda questi artisti e la loro ricerca?
Agostino Ferrari: Conobbi Lucio Fontana in occasione della mia prima personale presentata da Giorgio Kaisserlian nel 1961 alla Galleria Pater in via Borgonuovo a Milano, dove si era appena conclusa una mostra di ceramiche di Fontana. Diventammo amici e ci frequentammo fino al ‘68, anno della sua morte. Ci fu anche un rapporto di scambio professionale, lo presentai a un mio collezionista che ammirava molto il suo lavoro. Con Piero Manzoni la frequentazione era quotidiana, al Bar Jamaica a Brera e in molte altre occasioni, anche molto divertenti; ricordo una gita in Brianza, trasformatasi in scampagnata, per cercare una colla speciale per attaccare i suoi panini sulla tela, gita che mi fruttò uno di quei quadri… Allora Manzoni spesso non vendeva i suoi quadri, li regalava.
Manzoni, insieme ad altri, partecipò alla prima mostra che si tenne alla Galleria del Cenobio, quando ancora non s’ era definito il nostro gruppo. La ricerca di Fontana era ovviamente conosciutissima, il lavoro di Manzoni era molto concettuale, dalle Sculture vive al Fiato d’artista, era forse più facile parlarne di quanto non fosse vederla.
All’interno del gruppo del Cenobio, quali sono stati i compagni d’avventura che reputava esserle più vicini in termini di obbiettivi di ricerca?
Agostino Ferrari: Ettore Sordini e Angelo Verga venivano da una ricerca sull’Arte Nucleare, avevano lavorato in precedenza con Piero Manzoni e volevano allontanarsi dal suo estremismo azzerante per conservare la pittura. A tutti il segno era sembrato un linguaggio per uscire dall’ Informale diventato accademico, e inventare un nuovo alfabeto per la pittura.
Del gruppo faceva anche parte Ugo la Pietra, che ci era stato presentato dal gallerista; andammo a trovarlo, allora si stava laureando in architettura, ci piacque il suo lavoro ed entrò a fare parte del gruppo. Il teorico era il critico e poeta Alberto Lùcia, presente a tutte le nostre mostre e autore di numerosi saggi critici sul gruppo.
L’affiatamento maggiore era fra Sordini e Verga e fra Vermi e me. Con Vermi abbiamo talvolta condiviso lo studio e proseguito una ricerca parallela per circa vent’anni. Insieme abbiamo progettato una mostra che non si è mai concretizzata, dalle prime scritture con i segni non significanti fino ad arrivare all’86, quando Vermi mancò. Con Martina Corgnati stiamo lavorando per riuscire finalmente realizzare questo progetto.
Il collezionista Panza di Biumo, fu molto importante in quel periodo per lo sviluppo della sua carriera, fu lui a ‘traghettarla’ verso l’America, e fu Lucio Fontana a permetterle d’intraprendere questo viaggio. Mi parla brevemente della sua esperienza americana?
Agostino Ferrari: Panza di Biumo seguiva il nostro lavoro, e finanziava la galleria con piccole somme per sostenere la nostra ricerca. Quando decisi di partire per l’America nel 1964, scrisse per me una lettera di presentazione da consegnare a Leo Castelli. Fu Fontana a pagare il mio viaggio, affidandomi quattro quadri, che vendetti al mio collezionista. Ricevetti un milione di lire, di cui Fontana mi diede 295.000 lire, il prezzo del biglietto.
Sulla nave conobbi Piero Dorazio, che allora insegnava alla Philadelphia University. Conosceva bene Castelli e ci presentò. Trovato uno studio, portai a Castelli due grandi lavori – ricordo che allora in galleria era in mostra Roy Lichtenstein – disse che la mia ricerca non andava nella direzione giusta per l’America, allora stava esplodendo la Pop Art, e lo stesso, disse, sarebbe accaduto in Europa. L’operazione in Europa era infatti gestita dalla la moglie di Castelli, Ileana Sonnabend.
Era una missione impossibile per la resistenza dei galleristi o anche per lo scarso interesse dei collezionisti americani?
Agostino Ferrari: Perché l’attenzione in quel momento era tutta sulla Pop Art, come un enorme amplificatore che diffondeva solo quella musica.
L’Italia non fu però ‘colonizzata’ dalla Pop Art quanto la Francia o la Germania, da lì a poco la nascita dell’Arte Povera avrebbe arginato in parte il fenomeno.
Insistei comunque per portare avanti il lavoro, mi piaceva New York. Conobbi Eve Goldshmidt, figlia dell’editore della rivista belga Quadrum che amava la pittura italiana, e feci una mostra presso la sua galleria; attraverso questo canale riuscii a vendere qualche disegno. L’esperienza americana fu per certi versi anche positiva, ebbi la possibilità di conoscere Roy Lichtenstein, James Rosenquist, Louise Nevelson e altri.
E che influenza ebbe l’esperienza americana sullo sviluppo della sua ricerca?
Agostino Ferrari: Capii con ancora maggiore chiarezza che non volevo seguire la strada del Pop, il mio riferimento era decisamente la pittura Europea, da Malevic a Kandinskij.
Ma gli stimoli ricevuti, soprattutto da certa scultura, mi servirono per esplorare ancora più in profondità le potenzialità del segno, confrontandolo con diverse situazioni. Iniziai ad esaminarlo attraverso le Forme Totali, dove il segno, non più solo scritturale, era reso oggettuale attraverso la possibilità di fuoriuscire dal quadro e scomparire nuovamente al suo interno, inciso o rappresentato da un filo metallico, per definirsi poi nuovamente nella superficie. Nasce il Teatro del Segno, e a seguire varie sperimentazioni, dagli Eventi ai Palinsesti, i NESO (Nord, Sud, Est, Ovest) i Frammenti e le Maternità.
A metà degli anni sessanta inizia a sperimentare con il colore indagato attraverso un complicato processo razionale, affermando che “ogni colore è carico di significati polivalenti”. Potrebbe chiarire?
Agostino Ferrari: Fu una fase di percorso concettuale e teorico durata circa dieci anni che si concluse intorno al 1975 con l’Autoritratto, l’unica installazione che abbia mai realizzato, un’ opera percorribile in un percorso a spirale di 24 metri per tre metri d’altezza, più volte esposta in diverse istituzioni.
Nella serie precedente intitolata Segno-Forma-Colore Ipotizzavo delle relazioni di ‘amicizia’, d’accettazione fra certe forme geometriche, cubo e quadrato, sfera e cerchio, piramide e triangolo, e i colori primari, blu rosso e giallo, con i relativi complementari. Nell’Autoritratto invece approfondivo l’aspetto psicologico del colore: ad ogni colore corrispondeva un’emozione, partendo dal desiderio, il viola, si giungeva all’azione, il rosso.
Ha affermato di essere uscito dalla ricerca concettuale sul colore perché sentì che inaridiva la sua ricerca sul segno.
Agostino Ferrari: Avevo bisogno di tornare al segno e dipingere. Aprii, metaforicamente, la finestra per far entrare tutti i segni possibili, evocando anche i più strani che mi venivano in mente, a coprire l’intera superficie del quadro.
Fu in questo periodo che iniziò ad usare le sabbie?
Agostino Ferrari: Intorno all’83 scoprii nel sud Italia la sabbia nera di Otranto, ricca di silicio. Nerissima all’apparenza, ma piena di colori e granelli argentati se guardata al microscopio. Era viva, la sua vibrazione mi emozionava, e in luogo del pigmento nero ho iniziato ad usare questa sabbia per dare più profondità al segno.
Nel 2000 il salto, con l’apertura della superficie del quadro.
Agostino Ferrari: Nel duemila mi sono confrontato con Lucio Fontana. Con i Frammenti la superficie del quadro era diventata caotica, un cosmo esploso. Con le Maternità le restituivo un centro, riportando il mondo in un quadrato all’interno del cosmo, uno dentro l’altro, identici. Con questi quadri finiva un ciclo ed era necessaria una ripartenza.
Ritornai a Fontana, che con Rothko e Kandinskij è sempre stato un riferimento, cercando di capire che cosa avesse trovato nell’ alterità dello spazio buio e misterioso oltre la tela. Iniziai la serie Oltre la Soglia, dove apro il quadro, ma lo squarcio nero è illusionistico, dipinto. Non potevo però fermarmi a quello che già aveva fatto Fontana. È stato il mio strumento, il segno, ad indicarmi l’uscita.
Con i ProSegni inverto il processo, il segno nasce al di là del quadro, nella finestra aperta da Fontana, e si proietta verso l’esterno, verso lo spettatore.
E il cerchio si chiude. Torniamo quindi alle Terre Segnate: pensa di portare avanti il lavoro con la ceramica aprendo nuovo orizzonti di ricerca?
Agostino Ferrari: vorrei prima fare un’osservazione: anche con gli ultimi lavori in ceramica, in fondo, inverto il processo di Fontana: nel 61, quando lo incontrai, Fontana aveva tradotto l’esperienza della ceramica su tela; Ferrari ha tradotto l’esperienza della tela su ceramica…
In un prossimo futuro vorrei riprendere la ricerca con i ProSegni, sintetizzandola e semplificandola al massimo, senza però rinunciare alla possibilità di una lettura. Mi spiego: con il Teatro del Segno inventavo un alfabeto essenziale; giunto ai ProSegni ho capito che attraverso il segno posso raccontare, esprimere una consapevolezza del presente. Oggi la mia attenzione è mirata più a una narrazione attraverso la pittura, che al quadro come puro oggetto plastico.
Concluderei con una Sua osservazione sul sistema dell’arte oggi. Negli anni settanta un artista poteva essere considerato di successo anche con una scarsa presenza sul mercato perché era collezionato dai musei; oggi sembra che la pressione non riguardi tanto l’attenzione delle istituzioni ma la vendita. È anche sua questa percezione?
Agostino Ferrari: Esiste indubbiamente questa pressione. Piero Manzoni ha avuto molti epigoni, al punto che oggi l’arte premiata dal mercato è quella dell’avvenimento, della novità, non più quella sostenuta da un lungo lavoro di ricerca. Oltre a questo, le gallerie che una volta potevano sostenere questo lavoro, sono penalizzate oggi dalle aste, televisive e non, e dal grande sistema delle fiere, che offre la possibilità di avere un pubblico molto più vasto della galleria, concentrato in pochissimo tempo. Tutto questo non può che andare a discapito di chi fa un lavoro di ricerca.
FONTI E APPROFONDIMENTI: - Terre segnate, Galleria Fatto ad Arte, via della Moscova 60 - Milano - Dal 6 febbraio al 6 marzo 2020 -Sito ufficiale dell'artista: http://www.agostinoferrari.it/en/home-uk/ -Galleria fatto ad arte:http://www.fattoadarte.com/it/ -Galleria Ca' di Fra:https://cadifra.weebly.com/
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