Nel momento in cui scrivo queste parole, per una serie di eventi contrari, non ho ancora visitato la mostra Nanda Vigo. Light Project, in corso a Palazzo Reale di Milano fino al 29 settembre 2019.
Però ho letto tutto d’un fiato il saggio critico di Marco Meneguzzo, curatore della mostra, e man mano che procedevo nella lettura visualizzavo non solo le opere, alcune incontrate dal vivo in occasioni diverse, altre osservate nelle foto della stessa mostra, nei cataloghi e nel sito web dell’artista. Leggendo e guardando, la mente procedeva oltre.
Il testo “Nanda Vigo: da ZERO a infinito” si chiude così: «là [nei “cronotopi” n.d.r.] un concetto mistico che ti fa viaggiare col pensiero, qui [nei “deep space” n.d.r.] quasi si vede e si sente il plasma del motore a curvatura.»
Di tutta la ricerca di Nanda Vigo, ciò che mi affascina maggiormente è la capacità di visione oltre il visibile, che rende il suo fare un essere tramite tra la dimensione attuale e la sua proiezione, così nell’arte, come nella realizzazione di interni, nel design, nella progettazione architettonica.
Un’artista globale, direbbe qualcuno. Un’artista totale, aggiungerebbe un altro. Un’artista donna, hanno detto.
Non voglio aggiungere altre mie parole a quelle che già trovate nel comunicato della mostra e nell’Archivio dell’artista online (link e approfondimenti in calce all’articolo), leggiamo piuttosto le parole della stessa Nanda Vigo intorno a Light project.
PS: Ditemi la verità, quanti fra quelli che hanno letto “Guida galattica per gli autostoppisti” (Douglas Adams, 1979) hanno contestualizzato gli interni e le opere di Nanda Vigo sull’astronave Cuore d’Oro, o in qualche altro anfratto dell’infinità cosmica?
Nanda Vigo: donna, architetto, designer, scultrice, artista.
Che cosa significava essere tutto questo nella Milano degli anni ’60-’70, di Lucio Fontana e Bruno Munari, di Gio Ponti, Ettore Sottsass e Alessandro Mendini, delle sperimentazioni e dei nuovi materiali, di Azimuth, del Gruppo Zero e del Gruppo T?
Nanda Vigo: Per tutti noi, di Zero come di Azimuth, Munari era solo un grafico con manie artistiche e il Gruppo T, tutti i suoi figli, dei cinetici, quindi molto distanti dai nostri progetti.
E Gio Ponti un fantastico anticipatore (del ‘900) dei rapporti tra arte, design e architettura. Era l’unico, in tal senso, talmente unico che dai miei coetanei veniva bollato di Eclettismo, e quindi discriminato a priori. Meglio, così era tutto per me e per pochi altri. Purtroppo è da pochissimo che è stato riscoperto, ma non ancora del tutto capito. Negli anni ’60, Sottsass stesso non ne aveva stima finché un giorno, per caso, si incontrarono in treno, durante un viaggio Venezia/Milano. Ne nacque una fruttuosa amicizia, e i suoi lavori, attentamente presentati su Domus, iniziarono ad avere grande successo. E la stella di Mendini iniziò a brillare talmente tanto da diventare lui stesso direttore di Domus. Per quanto mi riguarda, grande amore e stima per entrambi. Ecco, con loro iniziò il periodo del Postmodernismo. Mentre, in arte, il mio riferimento era solo su Lucio Fontana, il grande Lucio, grande forza di sperimentazione e di fede spazialistica. Vedeva molto lontano e per questo l’ho amato moltissimo.
Vivevo tutti questi rapporti in modo così semplice, che solo ora mi rendo conto di quanto sono stata fortunata.
Penso a qualche compagna di viaggio, come potevano essere la stessa Lisa Ponti o Grazia Varisco, e mi chiedo che rapporto c’era tra voi in quanto donne milanesi con gli attributi necessari a progettare e plasmare materialmente una nuova idea del futuro.
Nanda Vigo: Con Lisa Ponti, c’è stata grande amicizia e collaborazione fino a quando, pochi mesi fa, ci ha lasciato.
La Varisco – mai vista – era una signora per bene con golfini twin-set e collanina di perle, mentre io ero una scapestrata che andava per osterie con gli amici Castellani, Agnetti, Manzoni e con molti altri artisti come Lo Savio, Tancredi, Pino Pascali o Giulio Turcato.
Erano poche le donne, ma molto interessanti, come Maria Rosa Ballo o Ninni Mulas. Ho avuto anche un buon rapporto di collaborazione con Adelaide Acerbi, direttrice grafica di Driade, elastica al dialogo e allieva prediletta di Enzo Mari. E molte donne fotografe, da Carla De Benedetti a Laura Salvati, a Vana Caruso, a Ketty La Rocca.
Vorrei ricordare anche Romana Loda, gallerista di Iseo che molto ha fatto per le donne artiste, come la famosa mostra “Magma” del 1975, e che mi diede un grande appoggio per la mostra “Il mistero svelato” che portai in varie gallerie in Italia. Erano gli anni ’70 e in quel momento era giusto parlarne. Ma riproporre una mostra solo al femminile ora, negli anni 2000, sarebbe solo una ghettizzazione.
Prima di parlare di questa mostra antologica Light Project, mi piacerebbe raccontare al pubblico che cosa è stata per te la Casa sotto la foglia (1965-1968).
Mi riferisco al tuo ruolo nella realizzazione degli interni della casa privata di Gio Batta Meneguzzo, ma anche alle frequentazioni e all’oasi culturale fiorita intorno a essa.
Nanda Vigo: “Lo scarabeo sotto la foglia” è stata un’esperienza esaltante. Ero una ragazzina e lavorare con l’architetto Ponti era qualcosa di non sperato. Naturalmente ero molto preoccupata, per cui quando mi recai nel suo studio per mostrargli le mie proposte, con diverse cartelle di progetti, lui ci mise una mano sopra dicendomi “non voglio vedere niente, mi mostrerai il lavoro quando l’avrai finito”. Fortunatamente il lavoro gli piacque, e dato che i metri quadri erano molto pochi e avrebbero dovuto contenere una famiglia con due figli, misi il letto matrimoniale al centro del soggiorno: Ponti apprezzò questa scelta, definendola la “Nativity Room”, sottolineando che solo una donna avrebbe potuto pensarla.
Nel tuo fare arte, il passaggio alla dimensione ambientale, prima con Fontana (1964) e poi con i tuoi Ambienti cronotopici (1967 e 1968), ribalta il punto di vista inglobando lo spettatore in una visione dall’interno.
Quali differenze e analogie sussistono tra il fruitore delle tue opere ambientali e quello degli interni da abitare?
Il tuo approccio creativo muta in relazione al destinatario finale?
Nanda Vigo: Sostanzialmente la differenza più grande è che nello spazio abitativo è necessario includere oggetti come sedute, tavoli, o quant’altro sia utile al sistema. Mentre, chiaramente, il progetto “ambientale” considerato artistico ha maggiore libertà di espressione, perché non è legato a nessun vincolo. Sono felicemente coniugata a tutti i progetti abitativi che ho svolto nel corso degli anni, perché connotati su misura dei rispettivi abitanti, di cui semmai ho approfondito ed esaltato gli interessi. Per esempio, la “Casa Gialla” è nata così perché il fruitore – che dal Sud si dovette trasferire al Nord – aveva nostalgia del sole della sua terra. Così la “Casa Gialla” rifletteva ed esaltava la luce.
Mentre la “Casa Nera” si sviluppò così dall’esigenza del collezionista che vi abitava, secondo il quale i quadri importanti andavano visti al lume di candela. Quindi, ogni progetto è sempre stato concepito a misura di chi vi avrebbe abitato, ma esaltando i valori della luce.
Negli anni ’70, lo specchio diventa un elemento necessario per riscoprire la dimensione del corpo e la sua posizione nello spazio, fisico e psichico. Sono gli anni dei Trigger of the space e delle performance.
Perché verificare le possibilità di libertà del corpo proprio in quel frangente?
Nanda Vigo: Dagli anni ’60 i materiali come acciaio, alluminio, vetro e specchio sono elementi necessari per la ricerca psichica di spazi “adimensionali”, che è quello che Marco Meneguzzo definisce “tempo mentale” e che ben rappresenta la mia ricerca.
Del corpo, non mi sono mai interessata, non sono un “body artist”.
Durante quest’intervista, ho pensato alla Luna.
50 anni fa l’umanità seguiva i passi ultraterreni del primo uomo sulla Luna, che spostavano un po’ più in là il punto di percezione del cosmo.
I tuoi progetti d’architettura verticalizzavano, tendevano già verso il cielo (Torri cimiteriali, 1962-1963).
Mi chiedo quindi se la tua luce – siderale, immobile, silenziosa – non possa essere anch’essa, in questo senso, “lunare”.
Nanda Vigo: grazie di aver pensato alla “luna”, riferendoti ai miei lavori. Ma spero proprio di arrivare un po’ più in là, la luna è solo un nostro satellite in una galassia un po’ più grande e sicuramente abitata.
Mi auguro sempre che la luce che io esprimo sia quella del “Goral”, ossia la luce primordiale indispensabile per dimensioni altre, appunto il “tempo mentale”.
Artista, designer, architetto… tanti modi per identificare un artefice del futuro, che fa entrare la sua idea nel quotidiano e lo avvicina, lo attualizza, lo esplora.
Un pensiero sulle nuove generazioni di artefici?
Nanda Vigo: Per le nuove generazioni posso solo augurare che si risveglino dal torpore del “benessere”, vero o fittizio, per reinventarsi un’altra terra e un altro cielo.
FONTI e APPROFONDIMENTI - sito web ufficiale di Nanda Vigo (link) - comunicato stampa di Light Project, Palazzo Reale, Milano 2019 (link)
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