Mario Cresci, fotografo, graphic designer ma, soprattutto, artista, giunge nel 1967 in Basilicata con il gruppo di urbanistica, denominato “Polis” e più tardi “Politecnico”, all’origine dell’idea progettuale, per certi versi utopica, finalizzata alla realizzazione del Piano Regolatore di Tricarico, un piccolo comune a sud di Matera.
A Tricarico Cresci compie uno straordinario viaggio di scoperta tra i luoghi, nella loro dimensione umana, sociale, comunitaria, rimanendone catturato al punto da dare inizio ad un personale itinerario di indagine visiva attraverso il linguaggio fotografico, instaurando un rapporto profondo con il territorio lucano che si protrae ininterrottamente per quasi 20 anni.
Con la mediazione visiva della fotografia, egli coglie la storicità, l’identità di un territorio che, nel momento in cui incontra il suo sguardo, diventa estensione feconda di relazioni e connessioni col proprio lavoro progettuale e artistico.
Le foto che Mario Cresci realizza in questo intenso periodo, fertile di motivi esperienziali ed operativi, sono legate alla realtà antropologica ed etnografica territoriale, una realtà ben precisa con cui l’artista interagisce, con cui si rapporta, che documenta nei diversi aspetti della quotidianità, nei gesti e nei rituali che la connotano, che descrive senza retorica riconducendola al proprio sentire. Egli utilizza la fotografia come tramite per esplorare una dimensione culturale nuova, lontana dalla propria, che si offre con tutta la propria umanità al suo sguardo: è l’universo della cultura contadina, del fare materiale, un mondo magico, ricco di fascinazione, di cui traduce fino in fondo la sostanza valoriale, che coniuga, attraverso la libertà creativa del proprio fare, con la cultura del design e del progetto, intrecciando e sperimentando tecniche e linguaggi della visione. Egli, a Tricarico, fotografa oggetti, luoghi, persone. Realizza i suoi primi ritratti: “Ritratti mossi” , figure riprese in interni con i volti resi irriconoscibili dal mosso fotografico. Successivamente realizza la serie di sequenze dei “Ritratti reali” con i quali , in tre scatti successivi, ritrae all’interno delle loro case, gruppi familiari con in mano le fotografie dei propri avi, creando un racconto ciclico che si snoda in un continuum di rimandi tra passato e presente, tra tempo reale e ricordi.
L’analisi delle opere fotografiche realizzate a Tricarico permette di ripensare l’importanza della memoria come valore identitario irrinunciabile, ma anche di riflettere su una sostanziale similarità antropologica e sociale tra luoghi del Sud, di cui rilevare persistenze e mutamenti. I volti dei suoi personaggi, insieme ai contesti in cui sono ritratti, raccontano di realtà deprivate, dei loro vissuti, delle loro storie; i loro sguardi conducono nei territori sospesi della memoria collettiva e avvalorano ancor di più quella circolarità del tempo che- come scrive lo stesso Cresci- “ attraversa la fotografia e la indica come storia e come traccia”. Oggi, a distanza di tanti anni da quella fondamentale esperienza umana e artistica, tutto questo risulta ancora più vero poiché, a testimonianza di quanto sia rimasto forte il suo legame con la Basilicata, Mario Cresci è stato pienamente coinvolto, come artista e curatore, nelle manifestazioni di Matera 2019.
In questa gradevole conversazione con Cresci, sospinta dalle mie curiosità e condotta dalle sue parole, ho percorso la dimensione generativa della sua sintassi espressiva, ma anche quelli che ormai sono diventati i suoi paesaggi dell’anima, quei luoghi che i suoi sguardi hanno letto e registrato scavando fin dentro le cose.
Quando è arrivato alla fotografia come mezzo espressivo?
Mario Cresci: Nella mia formazione c’è l’Istituto Superiore di Design di Venezia in cui , tra le diverse discipline, c’era già la fotografia intesa come linguaggio, come scrittura, come mezzo espressivo con una propria specificità, al di là del referente realistico.
In questa scuola nasce da subito la mia passione per la fotografia perché mi sembrava un linguaggio che si potesse usare in varie direzioni: in ambito antropologico, artistico, sperimentale. Il linguaggio della fotografia per me non era legato al concetto “bressoniano” di reportage o all’idea romantica; era già allora un linguaggio potentissimo, un mezzo di alterazione della realtà. Per anni la fotografia è stata isolata in un contesto parallelo all’arte. Per fortuna, in questi ultimi decenni, questi problemi di connessione con l’arte si sono sviluppati in maniera più approfondita anche a livello teorico. Tutto il secolo passato è vissuto, nel campo della fotografia, come un grosso equivoco: quello che la fotografia fosse un linguaggio assolutamente autoreferenziale, che come linguaggio, tutto sommato, non avesse niente a che vedere con l’arte, perché si tendeva a categorizzare e a dire : i fotografi, gli scultori, i pittori.
Questo mi ha sempre dato fastidio perché ritengo che l’artista sia una persona che usa più linguaggi espressivi. Io, infatti, disegno, ho sempre dipinto, ho fotografato, ho realizzato performance, installazioni.
La ricerca condotta in Basilicata, nello specifico a Tricarico, costituisce un importante momento di riflessione sull’evoluzione del suo linguaggio fotografico. Qual è la peculiarità linguistica delle foto legate a questa comunità?
Mario Cresci: La cosa interessante è che dietro queste foto c’è il comportamento, c’è il rapporto con le persone. L’immagine è l’ultimo stadio di un percorso di pensiero che spesse volte non viene dichiarato neanche. Invece io ho raccolto delle storie. Per fare una foto impiegavo tre o quattro ore. Non è che arrivavo lì e subito: Signori, vi faccio una foto! Entravo in casa degli altri e dovevo capire chi fossero; parlavo con loro, soprattutto con le donne. I mariti non spiccicavano una parola: erano muli di fatica. Le donne, invece, erano la memoria storica. Ho registrato delle storie bellissime prima di fare le foto. Quindi, il mio non era solo un atto visivo, era una partecipazione, un desiderio di entrare nel loro mondo.
La sua è sostanzialmente una ricerca antropologica, alla stregua di quelle realizzate da De Martino.
Mario Cresci: E’ proprio così. Io, infatti, studiavo De Martino, Scotellaro, Bronzini. Con un occhio diverso dal loro perché loro facevano le fotografie ancora con un’iconografia di stampo neorealistico. In quegli anni , nel ’67 per la precisione, quando io sono sceso giù, il Sud era rappresentato ancora con le vecchiette, i muli, gli straccioni, i bambini poveri; un Sud visto in maniera più degradata possibile, perché faceva effetto. Era questa una dimensione fotografica piena di stereotipi, anche quella realizzata dai grandi fotografi. Io ero proprio contrario a questa visione. Nelle mie foto, pur essendoci i volti, c’è però una fortissima dignità della persona; non c’è il minimo cedimento sul piano degli sguardi, che sono di consapevolezza, di identità, non pietistici. Questo perché io volevo che fossero partecipi.
Il suo lavoro fotografico propone un percorso d’indagine intorno alla dimensione antropologica di gruppo sociale, al concetto di gerarchia, di famiglia, intorno all’importanza della memoria.
Mario Cresci: Io lavoravo con il “Gruppo Polis” che curava il piano regolatore di Tricarico. Facevo parte di quest’equipe e mi occupavo della parte fotografica. Lo scopo era quello di una ricerca sul campo, come all’epoca faceva Ernesto De Martino.
Tutto questo ci portava a capire sempre meglio i meccanismi delicatissimi che caratterizzavano la comunità di questo paesino: un mondo talmente affascinante, talmente particolare che bisognava entrarci in punta di piedi. Eravamo un gruppo che teneva conto di questo rispetto degli altri, in maniera anche etica. Il piano regolatore e le mie fotografie venivano discusse nel consiglio comunale con tutti i contadini, con le famiglie che partecipavano al progetto. In questo senso, questo lavoro nasce proprio dalla considerazione che la famiglia, il gruppo familiare erano un elemento centrale del nostro intervento, quindi , la gente, le persone, le famiglie e i componenti delle famiglie. Dentro questa situazione venivano fuori le icone, le immagini dei penati, degli emigrati, cioè la memoria storica. E allora lì recuperavamo la storia delle famiglie.
Tra le storie che lei ha recuperato ce n’è una in particolare?
MARIO CRESCI- Ce n’è una bellissima che voglio raccontarle. Una di queste donne aveva il marito emigrato a New York, dove faceva il muratore. Lei rimasta a casa con tre figli, tre bambini piccoli, sa cosa faceva? Ogni tre-quattro mesi si faceva fotografare vestita bene, insieme ai bambini. A sinistra., tra lei e i bambini, lasciava uno spazio bianco. Mandava la foto con la letterina dietro con le notizie del piccolo nucleo familiare al marito. Lui riceveva la lettera e la foto. A sua volta si faceva fotografare a New York col vestito buono, uguale, in scala , in proporzione con l’immagine della moglie. Ritagliava l’immagine e la incollava nello spazio vuoto. In certe immagini lui guarda lei come se fossero vicini.
Ha fotografato questa storia?
Mario Cresci: Non ne ho avuto il coraggio. Però la racconto ed è come se avessi fatto la fotografia.
Poi sa cosa faceva questa donna?
Racconti.
Mario Cresci: Riceveva le foto e poi le sistemava una vicina all’altra. Una ventina di immagini in cui si vede lei che cambia, i bambini che crescono, lui che invecchia, lei che invecchia. C’è tutta una cronistoria familiare riportata in immagini, in epoca concettuale. Io venivo da Milano dove lavorava, in chiave artistica, la narrative art, la land art: questa era un’idea geniale che non era nata da un artista. Allora ho capito una cosa importante: il pensiero creativo non è detenuto solo dall’artista, l’artista non è poi, in fondo, il detentore assoluto della creatività, l’arte- come diceva Beuys- ce l’hanno tutti dentro. Allora vuol dire che il problema era capire come nascessero quei sentimenti, quelle fantasie collegate ad un valore inestimabile che era la fotografia. In quel caso lì, per me, la fotografia era il massimo del linguaggio artistico : era una comunicazione che corrispondeva alla loro vita; quasi come la musica, l’immagine, in quel caso, soddisfaceva proprio la vita delle persone. Ecco, questi ritratti, nascono da quell’osservazione, da quella riflessione. Oltretutto, nelle case di Tricarico non c’era un disegno, un dipinto, un acquerello appesi alle pareti: c’erano solo le foto.
Quindi la fotografia come strumento di comunicazione, di passaggio di sentimenti.
Mario Cresci: Esatto. La prima mostra con queste foto l’ho fatta a Tricarico, nella parrocchia del paese, l’unico spazio dove poterla allestire. Abbiamo liberato un po’ di tavoli e abbiamo sistemato le foto, realizzate nelle loro case, con le puntine da disegno. Il giorno dell’inaugurazione c’era la processione! La gente si riconosceva nelle foto. Tutte le famiglie riconoscevano i componenti ritratti. Attraverso la fotografia la gente partecipava, perché erano loro i protagonisti.
Il suo lavoro ha allargato la comunità sociale: dal singolo gruppo, dal singolo nucleo familiare all’intero paese, all’intera comunità.
Mario Cresci: Siamo nel ’67. Sono passati tantissimi anni. Se ripenso alle emozioni della mia vita, dovute al piacere di fare le mostre, ripenso a Tricarico. Se lei mi chiede qual è stata quella più importante, io rispondo : Tricarico e il suo oratorio. E’ stata la mostra più bella della mia vita e insieme la più faticosa perché ho dovuto stampare le foto per tutte le famiglie.
Nell’ambito del progetto I-DEA che caratterizza, attraverso una mappatura di tutti gli archivi della Basilicata, la designazione di Matera Capitale Europea della Cultura 2019, Cresci è curatore della mostra “Le Due Culture. Artefatti e Archivi”, una selezione di materiali d’archivio della seconda metà del XX sec. e i primi decenni del XXI, che esplora l’intersezione di discipline e culture in Basilicata, attraverso fotografia, artigianato, scienza e macchine.
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