Lo scorso 9 maggio 2019 è stata la mia prima volta dentro in un carcere.
Mi trovavo al San Vittore di Milano per la performance Come costruire una direzione del performer e artista vicentino Andrea Bianconi, curata da Giuseppe Frangi, con la produzione di Casa Testori e la partecipazione della compagnia del CETEC Dentro/fuori San Vittore, di cui fanno parte alcune detenute.
Seppur avessi la certezza assoluta che ne sarei presto uscita, l’atmosfera all’interno del carcere non mi ha certo lasciata indifferente.
Per me la performance è iniziata nell’atrio, quando ho abbandonato tutti gli effetti personali e consegnato la mia identità alle autorità, per entrare in quel luogo dove la persona che sei stata fino a quel momento cessa di esistere, in favore della persona che sarai quando ne uscirai.
Prima di passare al dialogo con Andrea Bianconi, permettetemi una doverosa descrizione dei tratti salienti dell’intera esperienza.
Il timore da svestizione e perdita dell’identità, dicevamo, subito bypassato dal metal detector e catapultato in avanti a suon di un numero, rimbalzato di collega in collega, cancello dopo cancello: apri, chiudi, conta, apri. Finalmente il lungo corridoio colorato da Marco Casentini e corredato da 50 disegni di frecce e direzioni realizzati da Andrea Bianconi, fino al cancello finale del Panopticon. Questa volta il cancello è già aperto per noi e ci aspettano le sedie vuote, l’altare per le celebrazioni al centro, le sacre rappresentazioni sotto l’alta cupola e altri cancelli intorno al perimetro, tutti chiusi tranne uno: quello con le gabbie senza fondo che pendono dal soffitto e le performer in tenuta, ferme alla propria postazione. Attendiamo: noi seduti, i detenuti curiosi che guardano da dietro i cancelli, le performer ancora immobili. I cancelli si aprono a turno e la sala si riempie piano, a gruppi di detenuti che prendono posto seduti insieme a noi, su ogni lato dell’altare. Su ogni sedia c’è un catalogo per ogni persona.
Inizia la performance ufficiale: due attrici leggono due brani di Giovanni Testori, entrano le detenute con le piccole torce accese, come alla ricerca di un percorso nel buio, recitando i versi di Ci vuole un fiore con le parole riscritte da Bianconi. Ed ecco che l’artista dall’altare ne intona il canto, perpetuato da tutti i performer e che finisce col contaminare tutto il pubblico in sala. Si assiste quindi a un duetto in cui l’artista indossa una maschera e poi la scambia con quella della donna che ha di fronte: invertono la posizione e il punto di vista, ribaltano la prospettiva. Scambiano nuovamente le maschere, cambiano direzione ancora una volta, si muovono specularmente. E ripetono.
Tutto culmina in una declamazione collettiva: ciascuno urla, bisbiglia, decanta, pretende, invoca il proprio Fantastic Planet in tante voci diverse che si uniscono nel comune desiderio di futuro e libertà.
Infine entra la gabbia, rovesciata e aperta verso l’alto e in tutte le direzioni.
Caro Andrea, com’è nata l’idea di entrare in carcere con una performance che coinvolgesse direttamente i detenuti in qualità di parte attiva, non solo come spettatori?
Andrea Bianconi: Incarcerare la gabbia a San Vittore era un mio sogno. Liberare le detenute anche solo per un’ora è stato il sogno successivo.
Tutto il mio lavoro è incentrato sulla condizione dell’essere umano. Parlando con Marco Casentini, autore del wall painting nel primo raggio, è nata l’idea di ingabbiare la gabbia, poi con la straordinaria sensibilità del direttore di San Vittore Giacinto Siciliano tutto ha iniziato a prendere forma. Casa Testori, che ha supportato il progetto, mi ha reso felice, nel senso che un sogno può diventare realtà.
La performance è una forma d’arte che comunica con il cuore ai cuori, con l’ansia alle ansie, con il desiderio ai desideri… dura un attimo, un momento, un minuto, un’ora, ma deve parlare con il cuore, deve staccarsi dalla realtà per poi tornare, è fatta di gesti, suoni o voci, silenzi e attimi, tensioni ed equilibri. Penso che tutti abbiamo bisogno d’amore, di libertà, di evadere da noi stessi, anche solo per un attimo. La performance per me è questo e ho voluto coinvolgere le detenute per farle toccare con mano l’amore e la libertà.
Immagino una fase preparatoria non facile, composta di routine, cancelli, orari e limiti logistici, fisici, visivi, temporali.
Come hai affrontato la forte contraddizione nel ritrovarti a creare la libertà del futuro all’interno della struttura rigida del carcere?
Andrea Bianconi: La performance è un’esperienza di libertà e l’ho affrontata in modo molto libero. Non mi sono mai posto domande. All’inizio ero molto curioso ma poi, una volta entrato, la curiosità si è trasformata in volontà. Sono entrato con la libertà… una volta dentro mi sono accorto che la libertà esiste veramente, prima di entrare l’avevo sempre data per scontata.
Certo, ci sono orari, regole, problemi, piani e modi di installare, soluzioni, restrizioni, attese, incontri con le detenute, prove e riprove, descrizioni dettagliatissime dei materiali per farli entrare, 6 cancelli da passare… ma il fatto che stavo ingabbiando la gabbia era sufficiente ad affrontare tutto, la stavo incarcerando, la gabbia ha seguito la procedura. Allestendo e costruendo la performance le restrizioni ed i limiti diventavano parte integrante, reale, fondamentale di ciò che stavo facendo. Uscirà un diario su tutto questo.
In questa performance ho visto tante tappe del tuo percorso di ricerca che culmina con la freccia.
Ho pensato soprattutto alle tematiche del tunnel, delle catene e della fuga come a quei fattori che determinano la formulazione di una via d’uscita, la necessità di una direzione salvifica sempre rintracciabile nella vita, dentro e fuori le mura circondariali.
Secondo te verso cosa punta la freccia del San Vittore?
Ovvero, qual è la reale necessità del carcere, in linea con gli scritti di Giovanni Testori che danno il La alla performance?
Andrea Bianconi: Questa performance rappresenta un punto fermo all’interno del mio percorso. Gabbie, maschere, frecce, prigione, protezione, nascondiglio, direzione, voglia di uscire da noi stessi pur sapendo che esiste la realtà. La freccia è la direzione.
Nel corridoio di 100 passi del primo raggio ho installato 55 disegni, sono 55 modi di costruire una direzione, 55 suggerimenti per trovare una direzione. La freccia è un segno universale, la troviamo in ogni azione, nella natura, dentro e fuori noi stessi. Il battito del cuore, il respiro, l’alzarsi da una sedia, il sorgere del sole, una foglia che cade, il vento, la voce, il pensiero, qualsiasi cosa ha una direzione.
La Freccia di San Vittore punta sempre verso l’uscita, la freccia di San Vittore punta sempre verso il fuori, verso il recupero e la speranza, la freccia di San Vittore punta sempre verso l’amore.
Ho voluto dare amore, e anche la canzone-filastrocca che ho scritto sulle note di Endrigo La Freccia, cantata nella prima parte della performance, contiene questo.
“Per far la freccia ci vuole l’arco | Per fare l’arco ci vuol la corda | Per far la corda ci vuol la mano | Per far la mano ci vuole il corpo | Per fare il corpo ci vuol la testa | Per far la testa ci vuol il pensiero | Per far il pensiero ci vuol l’idea | Per far l’idea ci vuole l’occhio | Per fare l’occhio ci vuole il cuore | Per fare il cuore ci vuol l’amore | Per far l’amore ci vuol Cupido | Per far Cupido ci vuole un angelo | Per fare un angelo ci vuol Cupido | Per far Cupido ci vuole l’arco | Per fare l’arco ci vuol la freccia.”
L’elemento di congiunzione tra i performer e il pubblico è stato il canto, affine alla tua poetica del rumore, che è poi sfociato nell’enunciazione dei tanti Fantastic Planet declamati dalle performer: un suono di rivendicazione e appropriazione dalle molte sfaccettature.
Che cos’è il Fantastic Planet?
Andrea Bianconi: Fantastic Planet Fantastic Planet Fantastic Planet Fantastic Planet… Fantastic Planet è il pianeta della nostra immaginazione. È dentro di noi, esiste. La continua ripetizione delle parole “Fantastic Planet” è la continua ricerca di questo fantastico pianeta. E le parole Fantastic Planet assumono molto valore all’interno del carcere.
La voce è una forma di libertà. Ogni detenuta, e poi anche il pubblico, poteva dire Fantastic Planet come voleva, poteva urlare, gridare, sussurrare, cantare… ognuno era totalmente libero. Il canto rappresenta anche l’unione, l’unione delle voci, degli stati d’animo, è un’unione di libertà.
Durante la performance cercavo continuamente questa unione, incitavo le detenute e incitavo anche il pubblico, composto per metà di detenuti. Volevo che le detenute si dimenticassero per un attimo dove si trovavano, volevo che cantassero e corressero come in un giardino fiorito.
L’immaginazione è la massima forma di libertà, è nostra ed è dentro di noi, e in carcere l’immaginazione è l’unica cosa che hai a disposizione.
Che cosa ha rappresentato il momento dello scambio della maschera?
Andrea Bianconi: La maschera è un elemento molto vicino alla gabbia. Imprigiona e protegge. Ho voluto inserire nella performance il momento delle maschere, un momento rituale: io e una detenuta ce le scambiavamo, le indossavamo, ce le scambiavamo di nuovo. La maschera è il contatto con la realtà, è il fuori che entra. La maschera è la nostra gabbia quotidiana.
All’interno di tutto questo contesto, qual è stato l’elemento sorpresa che ti ha colto alla sprovvista?
Andrea Bianconi: Vivere e convivere con l’inaspettato è parte di ogni performance. Quando ho visto che tutti, detenuti e pubblico cantavano, tutto era diventato un unico grande coro, per un attimo sono diventato spettatore. Guardavo e ascoltavo.
Un’altra costante nella tua ricerca è la gabbia che, nelle relazioni e nel pensiero, è come un contenitore di idee, sogni e desideri nascosti che aleggiano in uno spazio vitale, aperto e protetto, in un certo senso custode.
Ora mi hai confidato che al momento, dopo quest’esperienza, non credi di voler fare altre gabbie. Perché?
Andrea Bianconi: La gabbia imprigiona e protegge. È una sorta di lettera d’amore.
In ogni studio ho una gabbia appesa. La uso per contenere, imprigionare e proteggere le mie idee, i miei pensieri, specialmente quando sono troppi. La prima gabbia la comperai nel 2008 in un bellissimo negozio cinese a Canal Street a New York, in quel periodo costruivo mappe di uccelli e frecce, libertà e vincolo. Le mie gabbie sono senza fondo, sono aperte per permettere la continua entrata e uscita di idee e pensieri.
Vedere a San Vittore le gabbie chiuse in gabbia, completa e chiude un cerchio, quindi non farò più gabbie. Penso che abbiano trovato la loro casa. È stata un’esperienza talmente forte che non potrei non essere coerente con la mia emozione. E alla fine ho liberato la persona.
Questa del 9 maggio è stata la riattuazione di una performance andata in scena per la prima volta il 3 aprile 2019.
Ci sono state differenze a distanza di un mese fra la prima e la seconda?
Andrea Bianconi: Sì ci sono state differenze, perché la seconda volta non è la prima volta. Ma l’intensità era la stessa. Il pubblico era diverso, ed essendo il pubblico molto importante, le due performance hanno goduto e costruito vite proprie.
Nella seconda performance c’erano 3 detenute in meno, per cause tecniche, quindi ho reimpostato, grazie a Massimilla e Gilberta, la performance.
Ci sarà un seguito?
Andrea Bianconi: No, non ci sarà un seguito. La gabbia è finita in gabbia e la persona si è liberata.
FONTI e APPROFONDIMENTI: - Andrea Bianconi (Facebook link) - Casa Testori (link) - CETEC Dentro/Fuori San Vittore (Facebook link)
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