Cari amanti del contemporaneo, siete pronti a entrare nella storia delle nove tendencjie come mai vi è capitato prima?
Dopo aver visitato la mostra Zagreb Calling. Ivan Picelj, Vjenceslav Richter, Julije Knifer nella sede milanese di Cortesi Gallery (28 marzo – 28 giugno 2019) e seguendo le avventure di Ilaria Bignotti proprio dai tempi di Zagabria, non vedevo davvero l’ora di confrontarmi insieme a lei: storico, curatore e critico che ha rivoltato da cima a fondo gli archivi del movimento, comparando approfondendo e analizzando le testimonianze socio-culturali diffuse nel contesto storico attuale.
Oggi facciamo tutti insieme un tuffo in un passato proiettato nel futuro della collettività.
Mi raccomando: mettetevi belli comodi, possibilmente davanti a un desktop.
Grazie a una borsa di ricerca, per 6 mesi a cavallo tra il 2011 e il 2012, hai avuto la possibilità di indagare gli archivi di arte italiana degli anni ’60 e ’70 conservati alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma e quelli di Nuove Tendenze presso il Museo d’arte contemporanea di Zagabria.
Vorresti raccontarci di questa esperienza, così determinante per tutto il tuo percorso successivo, evidenziando anche le differenze tra le due realtà archivistiche che hai incontrato?
Ilaria Bignotti: Il progetto di ricerca che avevo proposto e che ha vinto la borsa di ricerca si inseriva nel contesto del mio Dottorato, svolto allo IUAV di Venezia e dedicato all’opera di Paolo Scheggi, con peculiare attenzione, da un lato, alla ricostruzione del dibattito critico e dei rapporti con le istituzioni italiane e internazionali, dall’altro alle fasi meno note della sua indagine, ovvero quella del teatro e della performance e quella del linguaggio concettuale, sviluppatesi tra la seconda metà degli anni Sessanta e i primissimi passi del decennio successivo.
La scelta di Roma e di Zagabria quali poli della mia ricerca scientifica è stata dettata dalla centralità rispettivamente assunta da Palma Bucarelli, che sin dal 1962 segue l’opera di Scheggi e due ne accoglie nella Collezione del Museo, sostenendo il giovane artista in mostre internazionali, quali la Biennale dei Giovani Artisti di Parigi del 1967, dove Bucarelli curava la sezione italiana; inoltre come è noto le relazioni tra Roma e Zagabria erano stringenti e complesse sin dalla fine degli anni Cinquanta, e grazie alla ricerca nei Fondi bibliografici della Galleria Nazionale d’Arte Moderna ho avviato un approfondimento specificamente rivolto alle relazioni tra Scheggi e il movimento di nove tendencije, che ho poi pienamente sviluppato al Muzej suvremene umjetnosti [Museo d’arte contemporanea] di Zagabria, al Dipartimento di Documentazione e Informazione e al Dipartimento bibliografico, sotto la guida di Jadranka Vinterhalter, una storica dell’arte e curatrice importantissima, e di Jasna Jaksic, attualmente curatrice del primo Dipartimento.
A Zagabria stavano allora sviluppando il progetto Digitizing Ideas (disponibile in FONTI E APPROFONDIMENTI), consistente in una scientifica e massiva digitalizzazione dei fondi storici, ivi inclusi quelli del movimento di nove tendencije che, come è noto e approfondisco dopo, a Zagabria nasce nel 1961 e si sviluppa sino alla fine degli anni Settanta.
Attraverso questa mia prima ricerca, emergono con pienezza l’amicizia tra Scheggi e Ivan Picelj, le relazioni internazionali dei due, il rapporto costante di dialogo tra Scheggi e Biljana Tomić, altra figura chiave della storia espositiva e performativa della ex Jugoslavia degli anni Sessanta e Settanta, e specialmente curatrice della mostra “Typoezija-Typoetry” dedicata alla Poesia visuale e performativa nel contesto della quarta manifestazione di nove tendencije, dove Scheggi partecipava con la performance Oplà-stick, il dialogo tra la ricerca di questa fase finale di Scheggi e i gruppi e gli artisti della New Art Practice jugoslava della seconda metà degli anni Sessanta – cito solamente il gruppo OHO… questi sono stati alcuni dei numerosissimi canali di indagine aperti in quei mesi e che tuttora sto sviluppando, in mostre e progetti, pubblicazioni e convegni anche prossimi a venire.
La differenza tra i due ambienti archivistici è appunto dettata dalla digitalizzazione e dalla fruizione quindi offerta dal Dipartimento di Documentazione e di Informazione del Museo di Zagabria, che dispone di una libreria a scaffale estesissima, oltre che di banche dati accessibili.
Da questa tua esperienza nasce nel 2016 una mostra insieme a Cortesi Gallery, prima nella sede di Londra e poi in quella di Lugano, frutto anche della collaborazione tra enti pubblici, privati e Archivi.
Proseguendo la riflessione sulle istituzioni, al di là di quelle coinvolte nella realizzazione della mostra, vorrei fare un passo indietro fino alla Zagabria di Ivan Picelj (1924-2011) negli anni ’50, precisamente a quando “l’arte astratto-concreta sarebbe diventata arte ufficiale a Zagabria”, intorno al 1954.
Vorresti delineare il ruolo delle istituzioni nella definizione del panorama contemporaneo nei contesti che hai approfondito?
Ilaria Bignotti: La domanda che mi fai chiederebbe una lunghissima e articolata risposta, volta a ricostruire tutta una serie di aspetti sui quali io e altri colleghi, tra i quali cito Giovanni Rubino, Francesca Zanella, Elisabetta Modena, abbiamo indagato al Museo di Zagabria. Rimando a una recente pubblicazione disponibile anche online, se qualche lettore volesse iniziare ad addentrarsi in questi temi. (disponibile in FONTI E APPROFONDIMENTI)
Per cercare di sintetizzare al meglio, va detto che il movimento di nove tendencije nasce, si sviluppa e articola proprio grazie e all’interno del Muzej suvremene umjetnosti della città croata, che nasce nel 1954 come Galerija suvremene umjetnosti [Galleria d’arte contemporanea], nella zona alta della città, e grazie alla direzione di Božo Bek e ad altri critici, artisti e storici dell’arte, diventa da subito un polo culturale, capace di tessere legami internazionali, con l’obiettivo di aggiornarsi sui linguaggi sperimentali, astratto-concreti, che si stavano sviluppando a livello europeo, grazie anche al progressivo distacco dall’influenza di Mosca e dal Realismo sovietico.
Tale progetto di consolidamento di un linguaggio nuovo e democratico che credesse nel valore etico dell’arte e nella sua possibilità di ridisegnare e educare la collettività, estendendosi, come scrivo in catalogo, dal “cucchiaio alla città”, un linguaggio che, pur se articolato e composito in quanto sviluppato da artisti diversi, ben possiamo ascrivere nel movimento di nove tendencije, è tuttora perseguito dal Museo di Zagabria attraverso mostre e ricerche scientifiche che da un lato continuano ad approfondirne la storia, dall’altro passano attraverso il sostegno delle indagini visuali delle nuove generazioni artistiche che si iscrivono in quel solco storico e in piena autonomia lo rileggono e fanno proprio, anche “contestandolo” o, ancor meglio, “dimenticandolo a memoria”, come magistralmente ci suggerisce Vincenzo Agnetti in merito al rapporto tra passato e presente.
Sarebbe interessante ora esplicitare le connessioni tra Arte, Società, Politica e Scienza in relazione a questa tua ulteriore precisazione di un’«arte democratica non utopica, ma salvifica», paradigma sotteso a tutto il testo di approfondimento che hai scritto per questa seconda mostra “Zagreb Calling. Ivan Picelj, Vjenceslav Richter, Julije Knifer” in scena nella sede milanese di Cortesi Gallery, fino al 28 giugno 2019.
Ilaria Bignotti: I tre artisti, specialmente Picelj e Richter, sin dalla fine degli anni Quaranta hanno elaborato una ricerca visuale, plastica, architettonica e grafica tale da poter dimostrare che i linguaggi astratto-concreti, se opportunamente tradotti in forme, dimensioni, situazioni aperte alla collettività, possono permettere una rieducazione estetica al bello inteso come paradigma relazionale ed esperienziale.
Consegnare ai cittadini, non solo al pubblico specializzato dell’arte, una città bella, una casa bella, una strada bella, un museo bello, significa dare loro strumenti immediati per poter comprendere il valore del rispetto dell’ambiente e dell’altro.
Credo sia un messaggio potentissimo, universale e contemporaneo: salvifico.
Non si deve poi dimenticare che proprio l’ardita sperimentazione del movimento di nove tendencije sin dal 1965 ha determinato, nelle mostre e nelle pubblicazioni prodotte, una spiccata attenzione alle relazioni tra procedimenti scientifici, tecnologie avanzate, computer art e ricerche visuali, creando situazioni pionieristiche delle quali possiamo trovare traccia semplicemente sfogliando i cataloghi del movimento, la rivista “Bit International”, e osservando le opere realizzate in quel decennio intensissimo.
Quali sono le differenze sostanziali fra le due mostre del 2016 e del 2019 o, se preferisci, le necessità che hanno spinto a reiterare per approfondire?
Ilaria Bignotti: La mostra del 2016 è stata concepita come prima, grande e doverosa mostra monografica, dedicata a un artista e intellettuale di altissimo livello e di fondamentale importanza per lo sviluppo delle relazioni e dei dialoghi visuali e più ampiamente culturali tra Europa occidentale e Paesi Balcanici, ma anche tra Stati Uniti ed Europa.
Da qui la scelta, in quella prima mostra, di creare una storia espositiva che comprendesse solo opere realizzate tra il 1961 e il 1973, ovvero negli anni di definizione, espansione e internazionalizzazione del movimento di nove tendencije, e di produrre un catalogo che fosse concepito come quaderno di ricerca, ricco di reprint di documenti fotografici storici inediti, di lettere e di schizzi progettuali, che potessero davvero ricostruire quella storia così importante. Voglio sottolineare, e non smetterò mai di farlo, la fondamentale collaborazione di Anja Picelj-Kosak, figlia ed erede di Ivan Picelj, e del Museo, di tutto lo staff, senza il quale sarebbe stato impossibile produrre un lavoro così scientifico e completo.
Venendo alla mostra del 2019, innanzitutto mi sembrava importante riprendere quanto era stato fatto e proporlo nella città di Milano, innanzitutto perché il capoluogo lombardo è stato, come Roma e Venezia, un centro importante di confronto tra i linguaggi est-europei, e specialmente di nove tendencjie, e quelli appunto italiani ed europei occidentali: ne parlo in catalogo, evidenziando che rispetto anche alle periodizzazioni bisognerebbe spostare alla fine degli anni Cinquanta l’avvio degli studi scientifici per capire bene i meccanismi e le relazioni che hanno determinato tale ponte importante tra Milano e Zagabria.
Poi, il dialogo con Richter era un doveroso approfondimento: i due artisti, diversamente ma animati da comuni obiettivi, lavoravano in direzione sociale e culturale; ho collaborato e dialogato in tantissime occasioni con Vesna Meštrić, curatrice della Richter Collection e che ha scritto un bellissimo saggio in catalogo.
La Richter Collection è un altro luogo magico, alle pendici delle colline di Zagabria, che porta avanti il messaggio dell’artista e che continua a produrre ricerca, mostre, pubblicazioni e a sostenere anche giovani artisti.
Che cosa è stato, in breve, il movimento nove tendencije?
Ilaria Bignotti: Sorto a Zagabria nel 1961, da una idea di Almir Mavignier, grazie allo straordinario incontro di un gruppo internazionale di artisti, storici dell’arte, critici e operatori culturali tra i quali Božo Bek, Ivan Picelj, Matko Mestrovič, e lo stesso Almir Mavignier, il movimento di nove tendencije si articola in mostre e seminari fino al 1978, anno dell’ultimo convegno del movimento stesso dopo la quinta e ultima mostra del 1973. Così ho puntualizzato in catalogo, sottolineando che dalla fine degli anni Ottanta, con la Caduta del Muro e il ridisegno delle geografie politico-culturali tra Est e Ovest, il movimento è stato oggetto di un importante recupero storico e critico, promosso dal Museo croato e da altre Istituzioni internazionali, quali lo ZKM di Karlsruhe, la Neue Galerie al Landesmuseum Joanneum di Graz, il Museum für Konkrete Kunst di Ingolstad… e in tempi più recenti dalla Tate Modern di Londra, dal MoMA di New York, giusto per citare due colossi internazionali che hanno focalizzato l’attenzione su Picelj e Richter.
E mi piace pensare che l’attenzione internazionale su Picelj, proprio da parte della città di Londra, sia stata anche un po’ accesa grazie alla mostra che ho curato alla Cortesi Gallery nel 2016.
In questo senso, oggi, la mostra e il relativo catalogo vogliono anche evidenziare, perentoriamente e con una scelta esclusiva rivolta a solo tre artisti, la necessità di riconoscere i protagonisti dagli epigoni, i fondatori dalle comparse del movimento di nove tendencije. Da qui appunto il titolo, Zagreb Calling: il movimento di nove tendencije ha chiamato a sé artisti veramente engagé, impegnati, che volevano provare, ancora, a mettere al servizio della società il loro lavoro. Una utopia che per qualche tempo è diventata realtà, e che a me preme ricordarlo… sperando possa essere di ispirazione ancor oggi.
Entrambe le esposizioni sono focalizzate maggiormente sull’attività di Ivan Picelj, artista totale e coerente, inventore di forme assolute per ridisegnare l’esistente, dentro e fuori le Nuove Tendenze. Parliamone.
Ilaria Bignotti: Ivan Picelj era un intellettuale, un uomo di cultura internazionale, che coraggiosamente, sin dalla fine degli anni Quaranta, dipingeva e lavorava nel solco dei linguaggi astratto-concreti, quando questi erano proibiti nell’imperante Realismo sovietico.
Si allontana dall’Accademia, sceglie di non essere allineato eppure al contempo capisce che deve stringere legami con le istituzioni e con le grandi gallerie, perché deve fare in modo che le sue ricerche, che il suo credo nel valore dell’arte come bene collettivo e linguaggio universale, ponte tra le culture e sistema attivo per unire le persone in un messaggio di bellezza e verità, di esattezza e nitore, si diffondano e dialoghino con quelle degli artisti come lui impegnati in un progetto davvero ecumenico.
Picelj parlava perfettamente moltissime lingue, il suo carteggio, conservato al Museo di Zagabria, dimostra la sua instancabile, e generosa, attività di collegamento tra gli artisti e i critici, i musei e le istituzioni.
Picelj era anche il grafico del Museo stesso, elabora nella sua vita centinaia di copertine di cataloghi, inviti, manifesti… insomma segue tutta l’immagine coordinata della sua istituzione museale. Anche questo è un impegno importante, che testimonia della sua sensibilità, della sua cultura, della sua apertura, della sua umiltà di mettersi al servizio e di rendere leggibile a tutti, con quel suo saper esporre visualmente in modo esatto e chiarissimo concetti e pensieri, le ricerche e i problemi affrontati dalle arti visuali.
E poi, lo scrivo in ultima istanza, ci sono le sue opere: dalle prime, modulazioni vibranti nei legni e nei metalli, lavori di perfezione accuratissima, alle più composite, e cromaticamente inesauribili, indagini dei pieni anni Sessanta, fino ai lavori con l’alluminio dei primi anni Settanta: tutte ricerche sulla percezione e sulla dimensione, sulla estensione del modulo e sul potenziale plastico, di integrazione all’architettura, dell’arte.
Poi ci sono le opere, ancora così poco note in Italia e che io ho messo in mostra qui a Milano proprio in provocatorio dialogo con quelle degli anni Sessanta più conosciute, della fine degli anni Settanta che, come quelle degli anni Ottanta e Novanta, intendono il colore come campo monocromo vibrante, dove il modulo si fa colossale e l’opera diventa un manifesto di gioia e di bellezza.
E poi le grafiche: un’altra, inesauribile, area di ricerca che in mostra, grazie alla generosità di Anja Picelj-Kosak, è pienamente raccontata esponendo anche gli sketches, i drawings e le maquettes che Picelj con paziente stupore assemblava, meravigliandosi egli stesso, mi piace pensare, della vibrante magia dei colori e delle forme.
Ecco, credo che il suo lavoro sia un inno all’arte come vita e bellezza. Una gioia per gli occhi, e per il cuore. Forse non è una frase esatta scientificamente, ma questo è quello che per me rappresenta Picelj oggi. Una emozione. Ne abbiamo bisogno.
Julije Knifer (1924-2004) sviluppa fin dal 1960 una grammatica visiva propria fondata sulla conformazione del meandro. Mi chiedo quali siano le sottili analogie e dissonanze con il modulo visivo di Vasarely o coi labyrinthes del GRAV per esempio, in generale con altre unità di misura alla base di un linguaggio fondato sulla percezione visiva.
Ilaria Bignotti: Knifer è un artista profondamente concettuale. Il suo meandro nasce come gesto radicale e riduttivo: deve avere la stessa potenza del Quadrato nero su fondo bianco di Malevic. Non vuole rappresentare nulla, non vuole metaforizzare l’esistente. È un segno-base, estendibile dal piccolissimo formato alla monumentale installazione ambientale.
È una ossessione calcolata, un ossimoro per antonomasia: più noi cerchiamo di trovargli dei confronti, delle motivazioni, più esso ci sfugge. È, appunto, un meandro: una forma base che si srotola e squaderna nello spazio, trasformandone la percezione, ma senza preoccuparsene. Vuole, primariamente, essere un luogo zero della pittura, nato alla fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, quando Knifer era nel gruppo Gorgona in cui transitò anche Manzoni: una compagine di artisti che si muoveva nella direzione di critica radicale, appunto, dell’arte figurativa, dell’arte intesa come elaborazione di un messaggio connesso al sistema che in qualche modo la determinava.
In questa scelta è anche la profonda distanza tra Picelj, Richter e Knifer. Erano accomunati, e questa è invece la loro profonda vicinanza, dal voler lavorare per far pensare il pubblico. Erano accomunati dall’essere artisti liberi ed esatti. Pronti a tutto, pur di portare avanti il loro credo.
Di Vjenceslav Richter (1917-2002) mi ha particolarmente affascinato la visionarietà nel concepire l’arte come un’unità di misura vitale, una cellula sottesa alla dimensione collettiva dell’esistenza in società che, confesso, mi ha fatto pensare a certa fantascienza, dell’epoca ma anche attuale.
In questo senso, le sculture in mostra sono emblematiche.
Ilaria Bignotti: Le due sculture in mostra, come puntualmente scrive Vesna Meštrić in catalogo, appartengono al progetto del linguaggio sistemico. Come giustamente tu scrivi, si tratta di una scelta fondamentale e fondante il percorso artistico di Richter. L’artista elabora un modulo. Lo sviluppa in enne direzioni, lo articola, lo rende tridimensionale, lo prolifera, lo fa germinare sulla carta, sulla tela, nello spazio… Richter procede con il pensiero architettonico-scientifico.
Un modulo è la cellula base da sviluppare, esatta e malleabile, per creare organismi visuali, ambientali, urbanistici e architettonici capaci di progettare una migliore visone, una migliore esistenza. Di questa sua visionarietà dà conto anche il suo utopico progetto, in linea con le ricerche metaboliste e megastrutturali dell’architettura radicale e sperimentale degli anni Sessanta, che prende il nome di Synthurbanism, e di cui ho parlato nella scheda scientifica conservata presso il More Museum, un altro progetto museale che ha spesso collaborato con il Museo di Zagabria, volto a raccogliere e analizzare progetti artistici non realizzati del XX e XXI secolo. (disponibile in FONTI E APPROFONDIMENTI)
Come definiresti il concetto di contemporaneità degli anni ’60-’70 in linea e al limite con l’ultima avanguardia dell’arte programmata tra le fila del movimento nove tendencije?
Ilaria Bignotti: Credo di averti risposto in qualche passaggio nelle precedenti riflessioni.
Cosa è contemporaneo? Personalmente, credo che essere contemporanei, per gli artisti, per i curatori, per gli studiosi dell’arte contemporanea, significhi occuparsi dei problemi del proprio tempo, e cercare di affrontarli, visualmente, relazionandosi con la comunità che insieme li condivide.
Essere contemporanei, per Picelj, Richter, Knifer anche, significava lavorare in vista di un miglioramento delle condizioni dell’uomo del loro tempo, pensando al futuro: senza voler essere profetici, o visionari, ma concretamente proiettati verso un orizzonte di senso e di valori, di sperimentazione e di verità.
Le loro opere erano strumenti per capire i meccanismi della visione, della conoscenza, e quindi della storia. Senza ragionamento non vi è bellezza. L’arte è un atto di ricerca. Etico.
Ti propongo ora un netto salto in avanti, fino ai nostri giorni.
Queste istanze possono ancora definirsi attuali, e in che modo?
Dal tuo punto di vista, inoltre, dove collocheresti la visione di mondo delle nuove generazioni dell’arte contemporanea?
Ilaria Bignotti: Come ho sopra accennato, sì, credo che il messaggio conservato e trasmesso dalle opere di Picelj, Richter, Knifer sia attualissimo, potente, e inesauribile. Lo vediamo nelle nuove indagini pittoriche internazionali, lo vediamo nelle architetture e nell’urbanistica, nella grafica digitale.
Questi artisti hanno tracciato delle direzioni che oggi continuano ad ispirare visualmente le giovani generazioni. Il problema è proprio nell’avverbio che ho usato: visualmente.
Ci sarebbe da chiedersi quanto permane dell’intento sociale ed etico di quelle indagini oggi.
Picelj, Richter, anche Knifer, sapevano che dovevano stare bene attenti a non farsi irretire dal sistema di controllo ideologico, che dovevano essere liberi di ricercare… Oggi siamo in una fase critica: ipercontrollati e manipolati, subdolamente, dalla rete, dalle comunicazioni, dai social network… Gli artisti più attenti stanno lavorando in questa direzione…e in un certo senso, sono eredi spirituali dei protagonisti di nove tendencjie.
Ho fiducia nell’arte. Di ogni tempo. Credo che ne abbiamo bisogno. Profondamente. Che non sia puro entertainment. Ma necessità condivisa. L’arte comunica sempre qualcosa, anche allo sguardo più superficiale: un “quid” di valore “passa” sempre nelle coscienze. Le immagini sono potentissime. Nonostante tutto, l’arte ci salverà. Ancora.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Ilaria Bignotti: Il prossimo 2 luglio, all’Estorick Collection a Londra, curerò in collaborazione con l’Archivio Paolo Scheggi e la Galleria Tornabuoni Art che ne rappresenta l’opera, una grande mostra di Paolo Scheggi, dal titolo In Depth. Un percorso espositivo che ne ripercorre le tappe fondamentali della ricerca, breve e intensa, e che mi piace pensare si collochi a seguito di quello dedicato a Picelj nella stessa città.
Nel mese di settembre, il 5 per la precisione, proprio al Museo di Zagabria curerò il re-enactement della performance Oplà-stick, passione secondo Paolo Scheggi che esattamente mezzo secolo fa si tenne in occasione di nove tendencjie 4, la quarta manifestazione del movimento, come scrivevo qui sopra.
A curare con me il progetto Jasna Jaksic, in collaborazione con l’Archivio Scheggi e la Galleria Tornabuoni Art, mentre il re-enactement sarà realizzato dal gruppo BAD.co, specializzato in questi progetti performativi complessi.
L’idea è quella di itinerare questo re-enactement in primis a Rijeka, nel mese di ottobre, per poi riproporlo l’anno successivo.
Proprio nel 2020, in aprile, ci sarà un grande progetto a Ca’ Pesaro, che curo con un team di grandissime professioniste – Anna Dusi, Vera Canevazzi, Beatrice Ravelli – dedicato ad Antonio Scaccabarozzi in dialogo con Roy Thurston e Michael Brewster, due straordinari artisti della Collezione Panza, dal titolo Invisible / Visibile.
Per restare in tempi più vicini, il prossimo 7 giugno alla Torre delle Grazie dei Musei Civici di Bassano, con Antonio Grulli, inauguriamo la mostra Le opere e i giorni, dedicata a due artisti, Veronica Vazquez e Marco Maria Zanin, analizzandone il linguaggio volto a riflettere sulla cultura del lavoro e su quella materiale. La mostra è promossa dalla Galleria Marignana Arte che rappresenta i due artisti assieme alla Piero Atchugarry Gallery che rappresenta Vazquez.
Sempre restando a prossimi progetti museali, sono stata coinvolta dal Museo di Impresa CUBO in due mostre come curatrice che apriranno a breve giro, il prossimo 11 e 13 giugno, dedicate al Patrimonio artistico del gruppo Unipol, nelle sedi di Milano e Bologna: un progetto volto a riflettere sul ruolo del Museo d’Impresa quale incubatore di cultura e collegamento importante, attraverso il sostegno dell’arte, tra la storia e la società.
Ma ripeto, credo che il nostro lavoro, di artisti come di curatori e critici, sia rivolto e debba essere rivolto alla comunità nella quale viviamo.
Altrimenti è puro, e drammaticamente vacuo, intrattenimento.
Per questo amo così tanto la ricerca degli artisti di nove tendencjie.
FONTI E APPROFONDIMENTI: - Zagreb Calling. Ivan Picelj, Vjenceslav Richter, Julije Knifer, Cortesi Gallery (link) - Digitizing Ideas (link) - Attraversamenti di confini. Italia-Croazia tra XX e XXI secolo, 2013 (link) - MORE MUSEUM: Vjenceslav Richter, SYNTHURBANISM, 1954-1964 (link) - BADco. (link)
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