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Renata Boero. KROMO-KRONOS

Apre in bellezza la settimana dell’arte contemporanea milanese, con “Renata Boero. KROMO KRONOS”, la mostra che il Museo del Novecento dedica all’artista genovese. Fra coloro che iniziano ad operare nell’ambito della decostruzione della pittura negli anni sessanta, Renata Boero è una delle figure più autonome nello sviluppare la sua cifra stilistica.

La sua poetica, radicata in un forte interesse per l’antropologia, si struttura intorno all’esperienza corporea e sensuale della natura. Nelle sue tele il mondo naturale non è mai rappresentato, ma trasformato in KROMO, sostanza cromatica, attraverso  l’uso di muffe e batteri, la frammentazione, la bollitura e diluizione di sostanze vegetali. Con questi infusi e poltiglie l’artista imbeve la tela grezza; lasciate essiccare queste lasciano residui densi e grumosi di materia, striature e veli di colore liquefatto. KRONOS è il tempo dei fenomeni trasformativi di questa materia; le sue opere ricche di stimoli visivi, olfattivi e tattili, trattengono e lentamente rilasciano il tempo della natura, insieme ai suoi profumi di terra e muschio.

Curata da Anna Danteri e Iolanda Ratti, la mostra comprende una sezione inedita di Cromogrammi, grandi tele tinte in infusi naturali e ripiegate più volte a formare griglie regolari, insieme ad opere più recenti quali le serie delle Germinazioni, Fiori di carta e le Ctoniografie, o scritture sotterranee, tele di formato verticale immerse nei pigmenti e sotterrate per lunghi periodi.

Parlando dei tuoi lavori hai detto che “lo sguardo dovrebbe ascoltarli”. Questo mi ha fatto pensare ad un episodio che mi hai raccontato: da bambina, la prima fascinazione sensoriale nei confronti della natura è stato il rumore dei tuoi passi sulle foglie e sull’erba, nel bosco. C’è un legame fra questa tua esperienza e le tue scelte artistiche?

In un testo, Achille Bonito Oliva a proposito del mio lavoro scrisse di “pittura dimenticata a memoria”.
Proust ci ha svelato la circolarità della memoria e di come il riaccendersi di sensazioni, suggestioni e impressioni faccia riaffiorare il piacere ad esse legate. Questa percezione mi accompagna e alimenta il mio piccolo cerchio magico che mi isola dal mondo.

Negli anni trenta, Kurt Schwitters, criticato per il suo uso di materiali non ortodossi in pittura, affermava che da quando i pittori avevano smesso di mesticare i propri colori, qualsiasi materiale e residuo industriale poteva essere usato per fare pittura. Così avvenne per molti pittori che negli anni sessanta e settanta vollero rifondare la pittura. Tu hai fatto esattamente l’opposto: sei tornata alle radici (anche in senso letterale)  del fare pittura. Andare controcorrente era una presa di posizione in un certo senso ‘politica’? O è stata un’evoluzione delle tue esperienze, soprattutto nel restauro?

Tutto nasce da un’imprescindibile esigenza di costruire un mio linguaggio autonomo alla cui determinazione è stato fondamentale l’esperienza del restauro di antichi teleri per Palazzo Rosso a Genova. La ferrea volontà con la quale ho perseguito questo obiettivo in un qualche modo si è tradotta in una presa di posizione “politica”.

Sempre a proposito della tua esperienza come restauratrice e la tua lettura del Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, ci sono aspetti simbolici nell’uso del colore o delle forme nelle tue opere?

 Certo che si. Tutti i “materiali di natura” portano con sé innumerevoli “storie” e significati. Alcuni parassiti fanno riferimento ai simboli della morte e della rinascita, altri materiali sono legati a contesti, riti e cerimoniali tribali. Convocandoli a banchetto, citando Paolo Fossati, li costringo a dare spettacolo di pittura, e diventano ‘protagonisti di altri riti, di movenze e di giochi’.

C’è stata contiguità fra le tue scelte, formali e progettuali, e altre esperienze concettuali degli anni settanta? Se si, a quali ti sei sentita più vicina?

Bella domanda… ovviamente ho respirato l’air du temps, le pulsioni barricadiere e rivoluzionarie portatrici di istanze decostruttive sotto l’aspetto linguistico e formale. Ricordo la mostra “ex radicibus” che feci a Macerata nel 1977, unicamente sugli odori, senza alcunché alle pareti, solo le suggestioni olfattive rilasciate dai “miei” materiali. Altre volte ho inserito nei miei lavori fotografie e dichiarazioni, altre ancora ho insistito sull’aspetto processuale. Quindi, in buona sostanza, ho sicuramente lambito le tematiche dei concettuali, però ho cercato di uscire da quel cul-de-sac avvalendomi anche di quelle esperienze.

Quando hai iniziato a esporre, il mondo dell’arte era prevalentemente maschile, ti è mai pesato questo fatto?

Non particolarmente nel senso che la mia energia era tutta interessata a rendere forte il mio lavoro, anche se sicuramente le difficoltà come donna c’erano ma non me ne sono accorta o meglio non ho voluto perdere tempo a pensarlo.
Piuttosto la mia spiccata propensione individualistica mi ha isolata dagli intruppamenti, dalle etichettature collettive e, in un certo senso, questo modo di essere mi ha reso la vita un po’ più difficile.
Se si ritorna per un momento all’atmosfera di quel tempo erano i collettivi e i gruppi a farla da padroni.

Hai parlato di una tua ‘autonomia esistenziale’ maturata attraverso la vicinanza, da ragazza, al mondo Junghiano durante i tuoi studi in Svizzera e inoltre lavori con materiali che hanno una simbologia antropologica; quanto (se) è rimasto di questi studi nel tuo approccio alla pittura?

L’approccio Junghiano è stato determinate sia per canalizzare tutta quella bomba di energia che da giovane mi esplodeva dentro, sia per avvicinarmi al mondo dei simboli e al concetto di archetipo. Non a caso ho scelto di lavorare con materiali come le radici, la natura nascosta della vita.

Nei tuoi lavori il tempo ha un ruolo fondamentale. Mi parli della relazione fra il tempo, i Cronogrammi e le Germinazioni?

 Certo, krono e kromo sono le due polarità entro le quali si sviluppa il mio lavoro. E nello specifico ti parlerei di tempi, perché diverse sequenze si incrociano, i tempi dei fenomeni, delle trasformazioni, e delle relazioni tra i materiali, e i tempi determinati da cromo, che evocano modalità altre, memorie culturali e antropologiche. I pigmenti non sono inerenti, portano non solo colore, ma odori, percezioni olfattive. Non si tratta di presentare o rappresentare la natura, quanto dell’irrompere direttamente nel vissuto.
Queste coordinate valgono per tutte le declinazioni dei miei lavori, Cromogrammi, Germinazioni ecc.

Hai parlato di ‘elettricità’, in relazione al tuo lavoro, mi puoi spiegare perché’?

L’elettricità è energia, vitalità, forte empatia tra il lavoro e l’occhio di chi guarda.
Tramontato il concetto di classicità inteso come tentativo di congiunzione tra mondo ideale e reale, mi piace pensare che il flusso dell’energia vitale possa sanare il dissidio e riportare un po’ dell’unità perduta.

Ti è facile decidere quando i tuoi lavori ti soddisfano, ed è il momento di lasciar compiere loro la propria vita, di lasciare che lavorino da soli?

Si, c’è un momento in cui si percepisce che qualsiasi altro intervento diventa inutile.
È una piacevole sensazione di completezza e complicità, quando si sente che il lavoro ha acquisito una sua autonomia.

Il piacere erotico è stato menzionato nel commentare le tue opere: ad esempio Marisa Vescovo parlò di “Libido Chromatisee” in relazione al tuo lavoro.  Puoi commentare? Personalmente, nella tua formulazione estetica percepisco un elemento viscerale: in particolare ho visto un tuo video degli anni ‘70’, Kromo Krime: portentoso! Entri letteralmente nelle viscere del colore e della materia!

La mia pittura si svolge per continuità e non per sintesi. L’analogia con il testo scritto è forte, il racconto si distende per campiture e nell’interstizio tra l’una e l’altra si insinua il richiamo di “un erotismo del testo dipinto”. Nel ciclo degli Specchi, invece, è più forte la visceralità che tu hai riscontrato.

Nella parte centrale della mostra, c’è un’importante sezione dedicata alla documentazione del tuo percorso. Me ne potresti parlare brevemente?

Tengo molto a quella sezione, e devo ringraziare Iolanda Ratti e Anna Daneri, che hanno fortemente voluto sottolineare l’aspetto documentale della mostra. Riportare l’attenzione filologicamente sulle date, le pubblicazioni, le ragioni profonde del lavoro, in un contesto museale è quanto di meglio un’artista possa desiderare.

Dopo la mostra a cosa ti dedicherai?

Disegnare e leggere per un po’, e poi ad un progetto con Martina Corgnati e alle prossime mostre a Roma da Gilda Lavia e a Palermo al Museo Riso.

Quali ambiti di ricerca artistica trovi più interessanti ultimamente?

Sono curiosa di tutto, mi piace guardarmi intorno senza pregiudizi cercando la bellezza e il senso delle cose nei lavori dei giovani artisti e sono molto interessata alle loro ricerche.

Un luogo, qualsiasi, dove vorresti veder esposto un tuo grande lavoro?

Un luogo preciso non saprei, un confronto con i giovani artisti africani mi stimolerebbe molto.

Alessandra Alliata Nobili

Founder e Redazione | Milano
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