Incontro Sandro De Alexandris nel suo studio di Torino in una mattina di febbraio. L’occasione è un’ antologica dedicata al Maestro dalla Galleria 10 A.M. ART di Milano. A cinquant’anni dal suo primo debutto milanese, la mostra, intitolata “1964 | 2018”, tocca i punti salienti di una ricerca definita dalla riflessione rigorosa e ininterrotta sul senso della pittura. Sandro De Alexandris inizia il suo percorso nei primi anni sessanta all’insegna dell’astrattismo radicale, per cancellare la pittura e dar vita a un nuovo inizio. In quegli anni realizza le carte piegate, dove la superficie è lievemente modulata da pieghe e slittamenti di piani, campi essenziali d’interazione fra luce e ombra, che mutano a seconda della posizione dello spettatore. La ricerca di un estremo abbassamento percettivo si concretizza negli anni settanta con il ciclo” t/n” superfici graffiate con un bisturi secondo un andamento verticale. In quegli anni lavora parallelamente con diversi materiali, con creazioni plastiche che si aprono all’interazione con le variabili spaziali. Dagli anni novanta, torna a dipingere campi espansi di colore, steso per velature sovrapposte, opere meditative, dense di effetti atmosferici e luminosi. Circondata da queste tele cerulee appese alle pareti dello studio, immersa nella loro atmosfera raffinata e meditativa e nella colta conversazione del Maestro, ascolto il suo pensiero sulla pittura.
Lei si forma all’Accademia Albertina in anni in cui Torino era una città dalla vocazione internazionale, culturalmente e artisticamente all’avanguardia. Quali erano i suoi riferimenti?
Era la seconda metà degli anni ’50, ero studente di Liceo, la figura più importante e affascinante fu senza dubbio quella di Michel Tapié, critico, teorico, organizzatore di mostre, conferenziere. Fece di Torino il secondo centro, con Parigi, dell’Art Autre; organizzando mostre come “Arte Nuova” e “Strutture e Stile”, facendo conoscere gli artisti del gruppo “Gutai”. Un’attività che portò avanti fino agli anni ’70 attraverso l’International Center of Aesthetic Researc (l’ICAR).
Ma ricordo, anche la mostra dell’Arte Americana, che fece conoscere in tutto il mondo la Scuola di New York, in Italia arrivò a Milano.
La pittura europea, le avanguardie storiche, erano naturalmente al centro della mia attenzione, in quegli anni conoscevano un rinnovato interesse critico con nuovi studi e pubblicazioni. Ricordo sempre l’emozione provata, visitando qualche anno prima una selezione delle opere della Galleria d’Arte Moderna, davanti a un polimaterico di Prampolini.
E quali le gallerie interessanti?
Tra le gallerie ricordo La Bussola, e poi Notizie, Il Prisma, Galatea. Ricordo nel 1957 una mostra di Burri alla Bussola, e sempre nel 1957, una mostra di Fontana al Prisma. Poi la prima mostra di Pinot Gallizio da Notizie. Erano mostre che entusiasmavano un giovane studente, quale ero in quegli anni ’50. Inoltre dopo il 1957 fu riaperta, terminati i lavori di ricostruzione, la Galleria d’Arte Moderna. Ricordo una mostra eccezionale dedicata a Robert e Sonia Delaunay.
Il suo approccio riduzionista è stato accostato da alcuni al Minimalismo, che negli anni settanta iniziava a farsi conoscere anche in Italia, ma se non sbaglio Lei non era completamente d’accordo.
Le carte piegate sono del 1964, così come i progetti dei ferri e delle superfici sovrapposte realizzati tra il 1965 e il 1969. L’operazione di piegare una superficie è il risultato di un lavoro di ricerca che, nel rimettere in discussione gli statuti linguistici della pittura, inizia un percorso di progressivo azzeramento e di cancellazione. Interrogazione delle scelte e degli strumenti in una tensione che trascorre dal campo dell’opera allo spazio che l’accoglie.
I ferri, le superfici sovrapposte non si pongono come occupazione dello spazio, bensì come misura e concentrazione visiva in stretto dialogo con lo spazio che le contiene.
C’è stata una contiguità fra le sue scelte, formali e progettuali, con le esperienze concettuali degli anni settanta? L’azzeramento era in un certo senso una presa di posizione in senso concettuale…
C’erano sicuramente delle contiguità, la componente progettuale presente nel lavoro di quegli anni, a iniziare da quelle prime carte piegate, e infine nella serie “ t/n “, le superfici graffiate che realizzano un radicale abbassamento percettivo, una scomparsa della forma nella necessaria lettura ravvicinata a cui l’osservatore è portato.
Ma l’operazione di graffiare la superficie, nel generare uno scarto di qualità cromatica e luminosa, ripropone una situazione in cui, nell’itinerario verso l’azzeramento, riscopre una materia, una differenza cromatica e luminosa. Una situazione in cui era possibile parlare di pittura. Come in effetti faceva Paolo Fossati.
Ha affermato di voler cancellare e dimenticare ciò che aveva contribuito alla sua formazione. Che cosa di preciso voleva cancellare?
La cancellazione, l’azzeramento facevano riferimento a quanto era stato fino a quel momento. Era la “tabula rasa” evocata dai dadaisti. L’idea di cancellazione si accompagna a quella di ricominciamento, nuovo inizio.
Era il percorso intrapreso, ogni qualvolta si avvicina all’obiettivo dichiarato opera uno scarto che comporta un nuovo inizio.
Restando sui suoi cartoni graffiati da linee perpendicolari così fitte da provocare sfasamenti ottici, deve essere stato un processo molto laborioso.
Abbastanza, lavoravo ovviamente in verticale. (Soltanto le prime prove sono state realizzate in orizzontale, e poi eliminate) La riga che appoggiavo alla tavola serviva soltanto per guidare il polso della mano che tracciava con la punta del bisturi. In questo modo il graffio poteva scartare e originare quei piccoli accumuli di materia che interagivano con la luce. Era un procedere molto lentamente.
Nei primi anni ’60 inizia la sua ricerca con le carte, lontano da quello che lei ha definito “il frastuono cromatico” di quegli anni. Cosa dettò questa sua scelta?
Il fascino della tabula rasa, e del ricominciamento. Era necessario un nuovo inizio. Questo nuovo inizio poteva essere la piega della superficie, il segno di un’operazione che modificava il piano creando un segno di luce. L’uso della carta, materiale da sempre considerato secondario, era suggerito dal desiderio di riproporla protagonista.
Mi parla dei lavori in poliestere e metallo in mostra? Come si declina la sua ricerca dalla carta a questi materiali?
Il foglio metallico possiede le stesse caratteristiche del foglio di carta, si piega, si taglia ma è rigido, la carta ha dei limiti per quanto riguarda le dimensioni. Questi lavori erano pensati per avere una dimensione che interagisse con lo spazio entro il quale sarebbero stati posti, e insieme con il corpo dell’osservatore.
Non fu facile trovare un’officina che se ne occupasse, e i tempi sono stati lunghi. Molti di questi lavori hanno due date per questa ragione, tra l’inizio e la fine sono passati due o tre anni. Diverso il caso dei lavori in poliestere, che realizzai in quei mesi da un artigiano che lavorava questo materiale. Era un procedimento un po’ complicato. Realizzai tre lavori, intanto in quei mesi lavoravo alle sovrapposizioni e rilievi in cartone Schoeller.
Dopo la serie delle opere graffiate, c’è un periodo di pausa e un cambio di direzione, se non sbaglio.
I cartoni graffiati erano i lavori che più si avvicinavano, nelle intenzioni, a quel punto zero a cui mirava il lavoro di quegli anni, a partire dalle carte piegate. Ma proprio in questi lavori si riproponeva nella superficie graffiata, l’accostamento tra due toni, due materie. In sintesi, si ripresentava una forma di pittura.
Iniziò un periodo di riflessione che avrebbe avuto uno sviluppo nelle grandi superfici tripartite, i trittici, che rappresentano un nuovo percorso di ricerca, in cui la differenza tra campi contigui si traduce in una moltiplicata possibilità di lettura.
Nel ciclo di lavori successivo, degli anni ’80, in cui utilizza tele e carte usate con sovrapposizioni e stratificazioni, introduce una nuova dimensione temporale, la memoria. Può commentare?
Questa nuova fase di ricerca è una diretta conseguenza delle superfici tripartite, e apre ad un lavoro di ricomposizione organica con frammenti di pittura. Parti di vecchi esercizi di pittura, carte e tele, sono riutilizzate per un nuovo ridefinirsi del processo attraverso cui si forma la pittura stessa.
Nascono sovrapposizioni di superfici-colore, carte e tele accostate per accumulo, che morbidamente ricostruiscono un percorso di analogia, recupero di frammenti di tempo vissuto.
Fino a che non terminò i materiali…
I frammenti, con il loro carico di vissuto, erano una sorta di reliquie di pittura, avevano senso perché conservavano la sorpresa della riscoperta.
Lei, contrariamente ad artisti della sua generazione che operano nel campo della pittura, non ha mai abbandonato il supporto, “l’essenziale della forma quadro”, per dirla con le sue parole, operando piuttosto sulle dialettiche e sugli slittamenti interni.
Ho bisogno di avere uno spazio definito, che accoglie lo spazio della pittura, il quale non coincide con quello del quadro ma si apre a un colore diffuso, vicino a uno stato di dematerializzazione, che è stato di sospensione, ancora interrogazione.
Nelle opere degli anni più recenti, le Soglie, le Stanze, i Giardini lei reintroduce il colore…
Uso colori intermedi, perché permettono una tensione verso l’indefinito. E’ pittura che interroga la pittura, riflessione sulla dimensione mentale dell’immagine che si fa spazio del colore, rivelazione del suo fluire, apparizione-sparizione, sostanza estesa verso un impossibile compimento, e ancora sempre avvio di un nuovo inizio.
Mi spiega i titoli di queste opere?
I titoli rimandano sempre all’idea di pittura. E di pittura che interroga la pittura. Soglia non è il confine di due spazi. Soglia è lo spazio della sospensione, è lo spazio di attraversamento della pittura. Stanza è lo spazio per l’attesa e la contemplazione, ma è forma poetica, unità metrica del canto, e il Giardino è l’hortus conclusus, luogo di lavoro, di contemplazione e di piacere; è specchio dell’idea di pittura che interroga la pittura.
Alcuni critici hanno visto nella sua opera contiguità importanti con l’Arte Analitica. Lei ha partecipato a mostre collettive insieme ad artisti analitici, ma mi sembra di capire che lei non abbia mai voluto identificarsi con alcun movimento…
Forse sono sostanzialmente un solitario. A parte l’esperienza a metà degli anni ’60 con Arrigo Lora Totino, poeta visivo e performer, ed Enore Zaffiri, musicista di musica elettronica. Ma eravamo essenzialmente tre amici che discutevano e progettavano possibili interrelazioni tra i nostri relativi spazi di linguaggio.
Non posso negare che ci siano evidenti contiguità del mio lavoro con la pittura analitica, e forse anche in tempi più lontani, quando veniva letto secondo altre ottiche. E capisco la necessità della critica di sistematizzare, quindi di organizzare il discorso per zone che comprendono più esperienze.
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