Osservatore attento e acuto della realtà, in tutti gli aspetti esperibili, capace di cogliere e interpretare il mondo esterno, la natura, di riconoscersi in essa, nei suoi elementi costitutivi, di trovare in essa e con essa la giusta armonia organizzativa della visione, le leggi strutturali del vedere; sperimentatore rigoroso e in grado di astrarre dall’osservazione princìpi e regole, di coniugare arte e scienza, aspetti razionali e creativi facendoli coesistere e fermentare nel corpo fertile dell’opera: questo e tanto di più è Alberto Biasi. La sua figura carismatica, di artista innovatore, ironico e geniale sovvertitore dell’ordine consolidato,”eretico fra gli ortodossi” (come, efficacemente, lo ha definito Marco Meneguzzo) attraversa oltre un cinquantennio di storia e di conquiste linguistiche. Egli, assoluto protagonista del fervido periodo di ricerche dell’arte programmata e cinetica, esponente storico indiscusso delle Neoavanguardie nate nella seconda metà del Novecento, ideologo e fondatore del Gruppo N, continua a tutt’oggi a sviluppare, con coerenza di indagine, il suo percorso creativo, sempre sospeso tra invenzione e immaginazione, tra sperimentazione e teoria, tra fenomenologia percettiva e dinamismi virtuali. Il suo linguaggio visivo, da “Trame” attraverso “Rilievi ottico dinamici” via via fino ai “Politipi” e agli “Assemblaggi” si è trasformato ed arricchito ampliando il concetto di arte programmata, innestando in esso nuovi valori figurali e dinamici, di interazione con l’osservatore che assume il ruolo attivo di “occhio creativo”. Nelle sue opere organizza scientificamente la realtà percettiva, ma senza trascurare quegli aspetti di confine che producono instabilità, ambiguità, indeterminatezza nella struttura dell’immagine, creando effetti di sorpresa e fascinazione in chi guarda. Gli aspetti intuitivi, ludici, creativi, in ogni suo lavoro, si intrecciano e si raccordano con la capacità di gestire problemi e vincoli, di operare un controllo razionale della conoscenza. Egli progetta e costruisce configurazioni che prevedono ben precise modalità percettive, ma anche eventuali variazioni esperienziali; che presentano tessiture strutturali e tracciati compositivi geometrici in bilico tra sollecitazioni visive programmate e casuali; che provocano coinvolgimenti ipnotici, inganni ottici. Così la staticità dell’opera incredibilmente si anima, diventa pulsante materia viva, che si espande e si contrae irretendo, con la sua forza attrattiva, il fruitore che, preso per malia, quasi fagocitato nelle sue dinamiche percettive illusorie, scopre nuove dimensioni formali, inedite possibilità figurali. A Biasi, al suo insospettato lirismo, al suo rigore speculativo, alle suggestioni della sua vicenda creativa mi sono accostata con curiosità conoscitiva, consapevole della vastità e profondità della sua ricerca ormai storicizzata, per saziare la mente di “Arte vissuta” e gli occhi di inattesi stupori, direttamente attingendo allo spessore visionario delle sue parole.
A distanza di anni, può ricostruire la nascita nonché l’esperienza di ricerca del Gruppo N, di cui lei fu cofondatore insieme a Manfredo Massironi?
Alberto Biasi: Il Gruppo N, contrariamente a quanto si legge, non si formò nel 1959, ma nel dicembre del 1960, quando cioè furono inaugurati lo Studio enne e la “Mostra chiusa-nessuno è invitato a intervenire”. In effetti le analisi recenti degli articoli di stampa e dei documenti riguardanti le esposizioni di quell’anno evidenzia che quel 1959 corrisponde esclusivamente all’inizio dell’ attività artistica mia e di quella di Manfredo Massironi, allora mio inseparabile compagno di strada. La decisione di formare il Gruppo N fu una scelta di noi due, una scelta dettata da motivi più volte dichiarati e comunque fu una scelta prevalentemente ideologica. Per quanto ricordo, in quegli anni mi ero convinto che l’arte fosse e potesse diventare una lingua universale con cui comunicare al di là delle barriere create dagli individui e superare gli steccati nazionalistici. Come tanti miei coetanei, mi sottraevo al culto della personalità e al soggettivismo, mi rifiutavo di abbandonarmi al lirismo e ad ogni lusinga della pittura e mettevo invece in primo piano la ricerca e la manipolazione di nuovi materiali per andare oltre la pittura, oltre la scultura. In quel clima maturò la decisione di firmare le opere con la dicitura “Ideazione: Gruppo Enne “ (anche solo “Gruppo N” oppure anche con un timbro costituito da 36 N ) e indicando di volta in volta il nome dell’esecutore o degli esecutori di ogni singola opera. Fu una scelta utopistica, tant’è che quel collettivo funzionò maldestramente e per soli tre anni, sia perché i contributi dei singoli furono del tutto eterogenei sia per la provenienza culturalmente disomogenea di alcuni. In effetti alcuni, prima del 1961, prima cioè della loro prima esposizione, mai avevano avuto a che fare con l’arte.
Gli anni cinquanta-sessanta videro la proliferazione, in Italia e in Europa, di una miriade di gruppi, tra cui, ovviamente, il Gruppo N. I presupposti teorici, le elaborazioni sperimentali, che ne identificavano la sintassi espressiva, suscitarono grande attenzione, ma anche sconcerto e ostilità.
Alberto Biasi: I Gruppi nascono nel momento in cui ci si convince che l’artista non può essere considerato il genio, il creatore assoluto dell’opera. Non a caso il mio Gruppo nasce inventando e producendo opere che non vengono firmate. Sono, essenzialmente, collettivi creativi. Questa cosa in quegli anni non venne assolutamente accettata e fu grandemente osteggiata .Infatti, quando il Gruppo N vinse, insieme al Gruppo Zero, il primo premio alla Biennale di San Marino nel ’63, ci fu quasi un’insurrezione degli artisti italiani, specialmente romani (Dorazio in testa, cui si aggiunse anche Emilio Vedova), che si scagliarono contro i critici e gli storici dell’arte che avevano premiato questi due gruppi, scatenando un’ignobile polemica, raccontando che essi erano una loro invenzione. Invece non era così. In realtà, storici dell’arte come Argan, Apollonio, Bucarelli oppure Restany si erano accorti dei gruppi dopo che se ne era già accorto e occupato il gallerista Guido Le Noci, e a distanza di tre anni, perché era già dal 1960 che essi erano operativi. La polemica che fu innescata dopo la Biennale di San Marino non si spense, bensì si protrasse fino all’anno dopo, fino alla Biennale di Venezia del ’64. Noi del Gruppo N eravamo sicuri di vincere il primo premio, invece non fu così. Già impressionata dal sollevamento degli artisti italiani, e poi anche- diciamo così -“comprata” da Leo Castelli giunto a Venezia con i”Popartisti” (le loro opere furono portate a Venezia dalla Sesta Flotta americana, che rimase poi ormeggiata nel bacino di San Marco, quasi a presidiare la Biennale), la giuria decise di assegnare il prestigioso riconoscimento a Rauschenberg.
Nello stesso periodo lei realizza delle opere monocrome (“Pitture nere”). A quale assunto concettuale e di ricerca rispondono?
Alberto Biasi: Le “Pitture nere”, pur eseguite all’inizio dell’attività di gruppo, sono più che altro legate ad un dialogo mio personale con Piero Manzoni, con il quale avevo scambiato alcune riflessioni sulle pitture monocromatiche, in particolare mettendo in rilievo che il massimo dell’indifferenza e della neutralità era ottenibile non solo con il bianco, ma anche con il nero e che, comunque, io concepivo il grigio come integrazione di due estremi. Un postulato né vero né falso. E io, in effetti, eseguii una pittura grigia che non ho più ritrovato. Esiste invece documentazione di “Pitture nere”, fra cui almeno tre “Un metro quadro di pittura nera in scala 1:10”, firmate Gruppo N e da me eseguite.
L’esperienza del Gruppo N , tra rotture e ricomposizioni , si chiude definitivamente nel ’64. Quali furono le ragioni che ne provocarono lo scioglimento ?
Alberto Biasi: Lo scioglimento del Gruppo N fu una vicenda molto antipatica perché avvenne in conseguenza di una lettera anonima che tale rimase fino al ’76, quando autori della lettera si dichiararono tre del Gruppo. La lettera era indirizzata a tutti i cinque componenti del Gruppo o almeno così sembrò. Nella lettera si chiedeva di mettere a votazione lo scioglimento del Gruppo N e così fu: tre votarono per lo scioglimento, io e Massironi votammo contro. Il Gruppo si sciolse senza poter sapere chi avesse scritto quella lettera. Quando nel ’76 Italo Mussa scrisse il libro sul Gruppo N, c’era chi – come Chiggio – insisteva perché venisse pubblicata la lettera anonima. Io posi come condizione alla pubblicazione che si rivelasse il nome dell’autore della lettera. E così si scoprì che erano stati tre gli autori: Chiggio, Costa e Landi. Lo scioglimento avvenne nel ’64 e da quel momento ognuno seguì strade diverse. In quella lettera anonima la giustificazione dello scioglimento del Gruppo fu addossata alle personalità prevalenti di Massironi e mia. Ma la verità fu che nel ’64 l’arte del Gruppo venne eclissata dalla Pop Art. Per il Gruppo, in quel momento, finì ogni velleità di sopravvivere con l’attività artistica e ognuno si dedicò ad altro. Io, invece, conservai la passione per l’arte e l’ho coltivata quasi come un vizio, anche quando, per sopravvivere, ho dovuto fare altri mestieri.
Da annotare che lo scioglimento dell’N avvenne nell’ottobre ’64. Dopo e fino a circa il ’67 fu operativo il Gruppo “Enne 65”.
Come è giunto all’intuizione concettuale e formale che l’ha portato a realizzare i suoi primi “Oggetti ottico-dinamici” ?
Alberto Biasi: Da ragazzino, quando, nel periodo bellico (ero sfollato nel paese dei nonni paterni), con un coetaneo sottraevo munizioni da un deposito d’armi tedesco. Non mi rendevo conto del rischio, né ricordo che qualcuno me l’avesse insegnato, ma riuscivo a smontare proiettili e bombe per estrarne le polveri e scambiarle con chi caricava cartucce da caccia e altro. Allo stesso modo, nel 1960, quando mi sono trovato fra le mani un ombrello giapponese, avendolo osservato da dentro e percependone una visione dinamica, ne ho smontato e rimontato le stringhe di bambù per capirne la costruzione; poi l’ho rimontato, trasformandolo e creando quello che intitolai “oggetto ottico-dinamico”. In effetti, memore del Surrealismo e della poesia-oggetto, mi venne spontaneo considerare pittura-oggetto quella composizione perché combinava in un insieme le risorse della pittura e della modellazione plastica. Già allora ero convinto che il curiosare intorno alla percezione spostava il confine dell’arte verso l’invenzione. In tema di ricordi, accenno ad un altro, più banale, ma forse più attinente. Ha a che fare con l’attenta osservazione del lavoro di un calzolaio che aveva bottega vicino a casa. Allora ero adolescente e, frequentandolo, riuscii ad imparare il mestiere allo scopo di ricucire il pallone e riparare le mie uniche scarpe da calcio, quando ormai solo i chiodini riuscivano a tenerle in forma. Ogniqualvolta ci penso, mi viene il dubbio che quel calzolaio sia stato propedeutico al mio mestiere d’artista. In effetti, quando eseguo una “Dinamica visiva” o un “Ottico-dinamico” io taglio la tela in centinaia di stringhe per poi ricomporle e infine fissarle con centinaia di chiodini. L’analogia mi sembra evidente: è come se io inseguissi infiniti disegni mentali finalizzati a realizzare non più scarpe, ma imprevedibili forme dinamiche.
Analizzando l’evoluzione del suo lavoro creativo, si coglie come non abbia mai smesso di indagare le variabili percettive e dinamiche della realtà.
Alberto Biasi: Io penso che la novità creativa delle mie opere consista proprio nel tradurre in immagini l’energia del mondo, nel suo tradurre in immagini i tanti spettacoli della natura che ci circonda, ma che sfuggono normalmente ai occhi. Al di là di ogni stravaganza, il fine del pittore e scultore rimane pur sempre quello di tradurre in immagini quel mondo che ai suoi occhi appare o sembra apparire come vero e che nella sua mente concepisce o desidera come fosse reale o realizzabile.
Nel suo percorso di ricerca e sperimentazione rivestono un ruolo fondamentale i materiali, ma anche tecniche e tecnologie con cui tradurre i dinamismi percettivi.
Alberto Biasi: E‘ vero. Ma Non ho mai avuto un retroterra e tanto meno una formazione scolastica, sia per quanto concerne la tecnologia del dipingere che del percepire. Sono stato sempre e solamente un istintivo manipolatore di sostanze e materiali, oltre che un attento osservatore di fenomeni naturali e immagino che questo abbia influito sulla mia formazione. Ad esempio, per ore io mi incantavo ad osservare le increspature circolari provocate dalle gocce o dai sassi sulle superfici degli stagni. Altre volte, seduto sui parapetti, rimanevo in contemplazione dei dinamismi ondulatori delle alghe mosse dalle correnti sui letti dei fossi; oppure, sdraiato sotto gli alberi, mi lasciavo rapire dall’intermittente trasparire della luce tra le foglie. Io penso che queste mie attenzioni abbiano influito sulla ricerca di nuovi aspetti percettivi, contribuendo, nel contempo, a risolvere quelli tecnologici. In proposito,sono propenso a pensare che di aiuto mi sia stata una mia innata propensione verso ogni forma di sperimentazione, intendo delle tecniche di utilizzo e trasformazione delle materie, soprattutto quando mi sembra che queste mi consentano di risolvere o semplificare o esprimere i problemi, anche i più stravaganti, in cui mi trovo o che mi vengono in mente.
In ogni modo, per concludere brevemente, mi sembra che l’aspetto percettivo nel mio lavoro sia spesso inscindibile dalle tecniche del fare. Da questo punto di vista il chiamarle, ad esempio, “Torsioni” non solo contraddistingue la tecnica, ma anche la sensazione di avvitamento spaziale che viene percepita.
Un fruitore intervenuto ad una sua mostra ad un certo punto esclama: “ il tondo si muove,ma sa anche stare fermo!” In questo, implicitamente , dichiara l’interazione con l’opera, la totale compenetrazione con il momento creativo, egli stesso “motore creativo” dell’opera.
Alberto Biasi: La citazione riporta una frase di uno studente statunitense che era venuto a vedere una mia mostra al Museo degli Eremitani di Padova nel 1988. Io lo sorpresi a dichiarare:” ma guarda quest’opera: l’immagine si muove ma sa anche stare ferma!” In realtà, la cinetica (non è che io ami molto la definizione “arte cinetica”, perché potrebbe essere addirittura rovesciata per dichiarare che il cinetismo non esiste, ma che esso sia una particolare illusione dell’occhio,della mente), allora, in quel caso lì cosa aveva notato? Aveva notato che in quelle opere il movimento e la dinamica erano legati a chi guardava. Apro una parentesi: Light prisms è una delle mie poche opere veramente cinetiche, cioè con elettromotori che muovono le parti. In realtà tutto il mio lavoro di ricerca è incentrato sulle immagini che noi vediamo in movimento, ma che in realtà sono in movimento perché io le costruisco e le faccio diventare tali. Fin dal 1960 io ho chiamato le mie opere “ Oggetti ottico-dinamici”. “Ottico” perché mettono in funzione l’apparato ottico ; “dinamici” perché la vis dinamica è insita nell’opera, ossia l’opera è realizzata in modo tale da permettere di essere vista in continua mutazione dando risalto a quella che è la creatività dello spettatore: è chi guarda, infatti, che costruisce la dinamica del movimento che in realtà nell’opera non c’è, poiché essa è completamente statica.
Mi sembra che nel suo lavoro sia man mano diventata sempre più determinante la collocazione spaziale dell’opera e l’interazione creativa con il fruitore.
Alberto Biasi: Proprio così. Un valido esempio lo offre l’installazione “Eco”; un’opera dove c’è l’evanescenza dell’immagine, cioè l’immagine che si forma sulla tela, dipinta con materie fotosensibili, rimane per un certo numero di secondi per poi svanire lentamente. Quest’opera, io l’ho sempre considerata una non-opera, perché chi realizza l’opera è chi entra nell’ambiente .Io mi sono limitato a creare delle superfici sensibili e ad usare la luce di wood per eccitare la sensibilità della tela. Il resto lo fa tutto chi entra dentro.
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