Si è conclusa il 20 gennaio 2019 a Firenze The Cleaner, la grande mostra che Palazzo Strozzi ha dedicato a Marina Abramovic. Con più di cento opere, fra dipinti, video, foto, installazioni e la ripetizione dal vivo di alcune delle sue più celebri performance eseguite da giovani artisti e coreografi, la mostra ripercorreva la carriera della Abramovic, prima donna ad esporre nel museo fiorentino.
Il percorso si sviluppava intorno a tre temi: le performance estreme degli anni ’70, le opere realizzate con l’artista Ulay, opere e performances che invitavano gli spettatori ad una partecipazione attiva. In questa occasione, presentiamo un’intervista che realizzai nel 2010 alla vigilia di The Artisti is Present. Fu la prima importante retrospettiva dell’artista negli USA, al MOMA, Museum of Modern Art di New York, e segnò una delle tappe fondamentali della sua carriera.
Negli anni settanta, quando il corpo si afferma come linguaggio artistico, Marina Abramovic diventa celebre per le sue performance spesso violentemente autolesioniste, elaborando una poetica complessa ma di estrema chiarezza concettuale attorno a temi di identità e relazione. Con Ulay, suo compagno d’arte e vita dal 1976 al 1988, ha sviscerato le dinamiche di comunicazione e conflittualità del rapporto di coppia; con Balcan Baroque, vince il Leone d’Oro a Venezia nel ‘97, intrecciando storia collettiva e personale in un lavoro esteticamente spettacolare.
Più recentemente si è dedicata a sviluppare relazioni di empatia con il suo pubblico in performance quasi ridotte ad essenza emotiva.
Raggiungo l’artista telefonicamente quando a New York sono le otto del mattino. Nonostante l’ora poco civile, Marina è gentile e disponibile e subito mi contagia con il suo evidente entusiasmo per il nuovo progetto al MoMA.
Vorrei iniziare domandandole di parlarmi della sua nuova performance per il MoMA. In che modo si ricollega alle sue performances passate, ad esempio Nightsea Crossing?
Marina Abramovic: “Nightsea Crossing” è una performance che ho eseguito negli anni ‘80 con Ulay dodici volte nell’arco di 5 anni in diversi musei del mondo, dalla Germania, durante Documenta a Kassel, all’Australia a New York. Sedevamo ad un grande tavolo uno di fronte all’altra senza parlare, bere o mangiare per sette ore al giorno, l’orario standard dei musei, per essere completamente concentrati sul pezzo.
A Sidney la performance è durata per un periodo di sedici giorni. In un certo senso ‘The Artist is Present’, la performance che dà nome alla mostra, riprende questo lavoro ma soprattutto riprende il filo di un’altro mio pezzo, ‘The House with the Ocean View’ (nel quale Marina viveva per 12 giorni in una sorta di casa aperta allestita su una piattaforma all’interno della Sean Kelly Gallery a N.Y, a digiuno e sempre visibile al pubblico, n.d.r.). Il concetto è lo stesso, l’artista che è presente, completamente esposta al pubblico e vulnerabile.
Per ‘The Artist is Present’ sarò seduta ad un tavolo molto più piccolo di quello usato per ‘Nightsea Crossing’ nell’atrio del MoMA nelle ore di apertura e di fronte a me ci sarà una sedia vuota dove chiunque potrà sedersi senza restrizioni di tempo. Questo avverrà per 3 mesi, l’intera durata della mostra, per un totale di 600 ore di performance. Lo spazio intorno al tavolo sarà separato dal pubblico da un nastro adesivo bianco sul pavimento e illuminato come un set cinematografico. Per tutto questo periodo di tempo seguirò una dieta controllata, tornerò a casa per eseguire i miei esercizi e la mattina dopo riprenderò.
Insomma sarò sottoposta ad una disciplina militare! Voglio sottolineare che Ulay sarà presente come ospite d’onore e che io sarò presente anche nel catalogo della mostra con un CD nel quale racconterò delle storie e nell’audio che accompagna le performances, ospitate al sesto piano del museo, sarò io a spiegare il loro significato. L’idea è quella di creare uno spazio carismatico e luminoso, di dare energia e ossigeno al pubblico.
Quindi da un intervento diretto del pubblico nelle sue performances degli anni settanta, sembra si sia focalizzata ora sulla pura trasmissione di energia.
Marina Abramovic: Sì certamente, ma soprattutto quello che è veramente importante è il concetto di lunga durata. Maggiore è la durata di una performance maggiore è il cambiamento che riesce ad effettuare sul pubblico e anche su me stessa.
Qual’è l’emozione più difficile da comunicare?
Marina Abramovic: Direi che non voglio comunicare nulla, piuttosto quando sono seduta su quella sedia sono davvero ‘svuotata’. Voglio ricevere e trasmettere, percepire in modo totale il pubblico e le sensazioni di chi mi sta di fronte, fino a vederne il dolore.
E’ come aprirsi e riuscire a liberare le emozioni dell’audience, che sono molto diverse fra di loro, ad esempio ho un amico che non vuole venire alle performances perchè invariabilmente si mette a piangere! L’emozione che io riesco a percepire dalle persone in modo più forte comunque è la solitudine.
L’idea di un processo di ‘cura’ per il raggiungimento del benessere spirituale, sembra essere una costante dei suoi lavori. Questo è legato ad un suo percorso di vita oltre che artistico?
Marina Abramovic: Non parlerei tanto di raggiungimento del benessere, quello che ora mi interessa è uno sguardo generale sull’umanità oggi, su come oggi viviamo le nostre vite. Non abbiamo tempo. Con l’avvento della tecnologia, di internet e di tutti i gadget che affollano la nostra vita, il tempo ci viene sottratto e perdiamo il senso del nostro essere e la concentrazione sulle cose che contano davvero.
L’arte, la performance, deve essere consapevole del pubblico e uno dei modi per ottenere questo obbiettivo è dargli del tempo. L’arte poi non può essere monocorde, deve avere tante sfaccettature, deve disturbare, lenire, essere sociale e politica. Tutti questi elementi sono nel mio lavoro. Se lo scopo è solo quello di ‘curare’ diventa una scemenza in stile New Age, è questa non è affatto la direzione del mio lavoro, che è quella di essere creativo e dare luminosità al pubblico.
Infatti lei ha affermato tempo fa che l’artista , è l’ossigeno della società.
Marina Abramovic: Assolutamente, è proprio così. Molte opere oggi riflettono la realtà così com’è: spazzatura, disperazione, overdose e suicidio e tutto il resto. Io voglio dire qualche cosa di positivo. Se vuoi elevare lo spirito però devi sentirti puro, quest’idea di purificazione è molto importante.
Prima di questa mostra al MoMA ho passato un mese intero in India, in un centro Ayurveda per purificare corpo e mente ed essere così in grado attraverso una disciplina fatta di esercizio mentale e fisico e di una dieta rigorosa di eseguire la performance.
Questa idea di disciplinare il corpo per prepararlo a trasmettere energia positiva sembra essere lontanissima dalla mania occidentale di disciplinare il corpo nel senso di plasmarlo e renderlo accettabile a degli standard estetici, un’ ossessione stigmatizzata ad esempio dall’artista Orlan che l’ha trasformata in un progetto artistico. Pensa che ci sia una differenza fondamentale fra percezione occidentale e orientale del corpo?
Marina Abramovic: Sì certamente, c’è una concezione completamente diversa del corpo in Oriente. Noi rimuoviamo l’idea della morte, pensiamo di essere immortali e questo crea confusione, ci perdiamo nella vanità e nella presunzione e in tutti gli oggetti che affollano la nostra vita e non abbiamo una visione complessiva di vita e morte.
In Oriente c’è una percezione diversa del tempo, del fatto che un istante ci siamo e quello dopo potremmo non esistere più e di conseguenza una maggiore concentrazione sull’essenza delle cose. Per quanto riguarda Orlan, ho molto rispetto per il suo lavoro, è interessante come problematizzi l’aspetto della ricerca della bellezza assoluta e dimostri come questo ideale possa trasformarsi in qualche cosa di totalmente diverso.
Ritornando alla mostra al MoMA, le ‘riperformances’ dei suoi lavori eseguite da altri sono una specie di rivisitazione del suo passato?
Marina Abramovic: E’ una restrospettiva esclusivamente focalizzata sulla performance, non ci sono i miei oggetti o le sculture e la documentazione video e fotografica è rigorosamente legata alla performance. Ho organizzato un’audizione per 150 performers e ballerini, fra i quali scelto 36 giovani artisti. Abbiamo organizzato un workshop per decidere come riproporre i pezzi. Ogni performance è di lunga durata e ho escluso i pezzi che implicavano autolesionismo, perchè non voglio esporre nessuno a rischi.
Quando si entra nella sala si può assistere a cinque performances, svolte contemporaneamente da coppie di artisti che si alternano, non solo coppie uomo-donna ma anche due donne o due uomini, visto che i tempi sono cambiati. Ci saranno, fra altre, la performance Imponderabilia, nella quale gli spettatori devono passare nell’androne di una porta sfiorando due performers nudi, e Luminosity, un pezzo difficile nel quale i performers si alterneranno ogni ora.
Per me questa retrospettiva è molto importante non tanto perchè è la mia storia, ma perchè mi dà la possibilità di porre delle domande sullo status della performance oggi, su come una forma d’arte che è alternativa e sperimentale possa entrare negli spazi e nella collezione di un museo e questo è importante non solo per me ma per tutti gli artisti che la proporranno futuro.
Nel 2012 si aprirà il Marina Abramovic Institute a Hudson. Mi può raccontare come sarà?
Marina Abramovic: Dopo la mostra questa sarà la mia priorità. Ho comperato un edificio costruito nel 1936, inizialmente era un teatro, poi è diventato un cinema e in seguito un tennis al coperto e un magazzino di antiquariato. E’ uno spazio enorme, può contenere fino a 1500 persone, e ora mi devo occupare di raccogliere i fondi per risistemarlo.
Si chiama Marina Abramovic Institute, ho scelto la denominazione ‘istituto’ perchè voglio dargli un sapore più europeo che americano e in realtà non sarà per niente un ‘museo’ dedicato alla mia opera. Dopo quarant’anni di performances credo di essere diventata una specie di ‘brand’, un pò come la CocaCola o i Jeans della performance e voglio dedicare questo spazio al lavoro di giovani artisti e a tutto quello che riguarda le ‘performing arts’ quindi anche musica, danza, opera, teatro film e video, sempre esclusivamente focalizzati sulla lunga durata, direi nulla al di sotto delle sei ore. Ci sarà anche una scuola per il pubblico, per spiegare i processi, le diverse tecniche e il pensiero che esiste dietro a questo tipo di lavoro.
Nell’estetica e nella ritualità di alcuni suoi lavori era presente un forte richiamo al simbolismo religioso occidentale, soprattutto al sacrificio. Quanto ha pesato il suo background religioso ortodosso nella sua vita e nella sua opera?
Marina Abramovic: Posso dire di essere uno strano mix di culture, sono cresciuta con mia nonna che era estremamente religiosa, (il nonno di Marina era Primate della Chiesa Ortodossa del Montenegro, N.d.A) mentre i miei erano l’opposto, comunisti (eroi di guerra durante la resistenza e poi personaggi di spicco sotto il regime di Tito, N.d.A.) totalmente anti-religiosi, quindi posso dire di essere stata esposta a due estremi.
Non so se l’idea di sacrificio abbia a che fare con il mio background ortodosso. Forse ha più a che fare con il comunismo, con il modo in cui sono stata allevata, con le leggende sull’eroismo e con l’idea che quello che conta non sei tu ma la causa di rendere il mondo un posto migliore per tutti.
Quello che ho geneticamente ereditato da entrambe le parti è una gran forza di volontà. Sì probabilmente il mix di comunismo e cattolicesimo ortodosso mi hanno dato questa forte determinazione.
In una sua performance recitava: ‘voglio diventare molto vecchia e raggiungere quella fase in cui nulla più conta nulla.Voglio non avere più desideri’. La pensa ancora così?
Marina Abramovic: Sì, la performance era ‘The Onion’ e la penso ancora così. Credo che quest’idea di non desiderare sia fondamentale, perchè vogliamo e vogliamo e vogliamo e ci dimentichiamo che quello che conta è essere nel presente, adesso.
E’ per questo che per me l’idea che ‘l’artista è presente’ è così importante. Sono davvero curiosa di vedere come questa esperienza mi cambierà.
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