Superfici attraversate da tracce, segnate da impronte che evocano gesti, movimenti impressi nella morbida, duttile materia; estensioni di materia stratificata, indagata, elaborata, raffinata nella sua densità che ha incorporato il reale, la sua dimensione profonda; materia, estesa e durevole, diventata segno, simbolo, scrittura, immagine e di nuovo segno, traccia; opere che dichiarano la propria origine, la natura e la storia della propria sostanza formativa, il loro autore: lo scultore crotonese Antonio Violetta, che ne ha modulato le forme, ne ha scoperto l’ansiosa fisicità, scavato i solchi, definito gli spessori, plasmato le volumetrie. Sono le Pagine sature di memoria, i solchi, le loro fragili e intime grafie; sono il divenire evolutivo del suo lavoro scultoreo: la presenza umana, la forza plastica ritrovata della figura. L’esplorazione analitica che indaga il suo fare, coglie nelle sue Pagine il valore di una “scrittura senza codice”; l’essenza comunicativa di trame segniche che s’originano non già da un disfacimento delle sembianze naturali sacrificate ai destini dell’astrazione, bensì dall’avere assorbito in sé l’essenziale struttura figurale della natura che riaffiora come preziosa evocazione di una scrittura interiore. Progressivamente la materia, saturandosi d’esperienza, esposta allo sguardo interiore della coscienza, rivela le sue infinite virtualità, la vita inferiore che la fermenta. Allora la sensibilità dell’artista scopre in essa il peso e la consistenza dell’immagine, la forza della figura. La materia informe, sedimento ribollente di immagini, nelle mani di Violetta acquista forma: diventa pelle sensibile, carne del proprio corpo, che ha un volto, una fisionomia, una storia che affonda nella densità delle sue stratificazioni geologiche, che si dispiega nei territori del mito e che racconta, traducendola nella definizione figurativa del modellato, la storia, l’esperienza stessa dell’uomo. Nella continuità coerente del suo lavoro, una rinnovata tensione creativa genera le opere più recenti, laddove le cose concrete, le figure umane diventano frammenti, torsi senza identità, rivestiti da nuovi segni, nuove trame che ne “incidono l’epidermide”. Il processo che dà forma all’opera plastica è analogo per Violetta a quello della poesia, ne traduce l‘interno magma vitale, le vibrazioni comunicative: così la parola scultorea si fa sostanza concreta, esistenza poetica, materia nella materia.
Dal 30 novembre 2018 al 30 gennaio 2019 sarà possibile vedere le opere di Violetta nella mostra personale “Antonio Violetta: Opere scelte” presso Galleria CLIVIO Arte moderna e contemporanea, Via Foro Bonaparte 38, Milano.
Ti sei trasferito giovanissimo a Bologna, dove poi sei rimasto. Quanto è stata importante questa scelta per i tuoi futuri percorsi artistici? Come è maturata, da quale analisi o considerazione particolare è scaturita?
Antonio Violetta: E’ stata una scelta importante perché mi ha dato la possibilità di realizzare concretamente quello che avevo in mente. Mi sono trovato in un luogo in cui era possibile fare, contrariamente a quello che lasciavo dove avrei certamente avuto più difficoltà ad operare e ad esistere come artista. Mi sono trasferito a Bologna per motivi di studio, ma la decisione di rimanere lì era presente in me già da prima perché sentivo che il luogo in cui vivevo non avrebbe potuto offrirmi le possibilità che avrei trovato altrove.
Ti senti di appartenere a quella schiera di artisti che ha lasciato la Calabria spostandosi altrove, determinando quella continua spoliazione di risorse umane e creative che viene definita “diaspora”?
Antonio Violetta: Credo che gli artisti della diaspora siano forse quelli che si sono allontanati in un’età più adulta. Io sono andato via molto giovane: una grossa parte della mia formazione culturale e artistica è avvenuta a Bologna. Quello che a me rimane della Calabria è qualcosa che ha a che fare con la poesia del luogo, ma anche con sapori ed umori più squisitamente mentali. Lì è avvenuta la prima parte della mia formazione, quella più intuitiva, dell’anima; mentre Bologna è diventata la città dello studio, dove ho rielaborato le mie prime esperienze, le sensazioni interiori forti dei miei primi anni, tradotte poi in elementi sostanziali del mio percorso umano e artistico.
Perché questa Terra, nell’epoca della globalizzazione, continua ad essere “periferia” nell’articolato e complesso sistema dell’arte attuale?
Antonio Violetta: E’ certamente paradossale, è strano che un cittadino italiano, abitando a Firenze o a Bologna o a Milano, possa spostarsi da una all’altra di queste città in pochi minuti nell’arco della stessa giornata, mentre in Calabria, da una parte all’altra della stessa regione, ciò non è possibile. Si assiste a qualcosa di sostanzialmente ingiusto: lo stesso cittadino italiano qui non ha gli stessi diritti che ha altrove, perfino il diritto esistenziale al movimento. Sì, ci si rende conto che è una terra periferica. Questo, in campo artistico, assume un duplice aspetto. Posto che chi fa arte la fa comunque e in ogni caso, il problema vero è che in certi contesti vengono offerte delle possibilità per cui quello che si fa ha più risonanza, diventa più evidente; in altri contesti, invece, l’artista è più legato ad un destino di “discrezione inevitabile”: è più “nascosto”, meno “visibile” e tutto diventa più complicato e difficile.
Oggi come vivi la Calabria? Come ti rapporti con i luoghi in cui affondano le radici delle tue declinazioni creative?
Antonio Violetta: Ci torno sempre volentieri: per me, come ho già detto, è il luogo dell’anima, della poesia, del vento, del mare, di certi paesaggi, è il luogo in cui ritrovo il senso del “venire alla luce”. Qui vedo quegli elementi di carattere naturale che sono fondanti per il mio lavoro.
Sconfinati silenzi che vibrano tra cielo e mare, echi di antichi miti, fertili rammemorazioni di paesaggi magnogreci: quanto è stato importante questo prezioso bagaglio culturale?
Antonio Violetta: Credo che sia stato fondamentale. Da giovane non mi rendevo conto di questo: non mi chiedevo neanche il perché. Da un po’ di tempo a questa parte, invece, ho capito meglio alcune cose. Quando riguardo il mio lavoro, scopro i segni, le strutture e i modi in cui esso si è organizzato e si è mostrato e tutto ciò mi riporta alle origini, alla loro dimensione interiore: quell’arrivare proprio alla luce delle cose che credo sia legato alla terra in cui si nasce, alla prima luce che abbacina, ai primi odori che si percepiscono, cioè al senso profondo di un luogo.
Il tuo cammino creativo, il tuo essere artista, come si è andato strutturando?
Antonio Violetta: In qualche maniera ho sempre cercato di distinguere: da una parte il destino “materiale” della mia vita; dall’altra quello che è un percorso più intimo in cui si scopre la “vocatio” a fare l’artista, qualcosa che devi fare ma perché è una necessità, qualcosa che ti appartiene, che è dentro di te in profondità: che non hai scelto perché essa ha scelto te. Opererei dovunque e dappertutto, in quanto non opero perché ho scelto di farlo ma perché sono stato scelto. E’ come una soglia di passaggio; è come se la creazione fosse un’entità invisibile che si manifesta solo quando trova elementi attraverso cui scorrere e concretizzarsi mostrandosi al mondo.
Dopo la matericità delle “Pagine” e la riflessione sulla dinamica segnica delle superfici, negli anni novanta sei approdato ad una nuova dimensione figurativa. Come si concilia questa nuova stagione della tua ricerca plastica con la tua anima informale che, periodicamente, comunque riaffiora nel tuo percorso creativo?
Antonio Violetta: Un primo momento importantissimo è stato quello delle “Pagine”, dei “luoghi di scrittura della scultura”; quello è stato un grande momento. In quegli anni, apparentemente, tutto avveniva su livelli di astrazione. In realtà era sempre presente il senso della natura; c’erano il suono, i movimenti, il vento, pensavo a qualcosa che avesse a che fare con il mare, con i calanchi di argilla della mia terra: quell’argilla rigata, scavata, scolpita dall’acqua, dal tempo. Ho poi sentito la necessità che nel mio lavoro apparisse la forma umana, e così ho fatto. Il momento che vivo adesso è quello in cui le due modalità espressive si sono fuse, coesistono tranquillamente nello stesso alveo di ricerca in cui l’identità astratta della mia scultura ha come rivestito la presenza umana. D’altra parte, la scultura come la poesia è fatta di poco. La poesia è fatta di una parola e della sua ombra. Nella scultura è la stessa cosa. La presenza umana per me è importante perché è qualcosa su cui tutti abbiamo modo di riflettere, di riconoscerci, e questo rende l’arte più universale, più profonda, più totale. Non trovo tra questi due aspetti alcuna dicotomia.
Quale materia scultorea è quella elettiva per i tuoi modi espressivi?
Antonio Violetta: La materia elettiva, quella con cui preferisco lavorare, è l’argilla. La scelta dell’argilla è anche una scelta mentale; sono stato sempre affascinato dal fatto che questa materia sia fango, terra, polvere: niente. Mi ha sempre affascinato il fatto di poter impastare con essa le emozioni, i pensieri, il desiderio; di dire qualcosa con una materia così semplice, che diventa una realtà presente grazie all’acqua e al fuoco, che acquista luce e che quindi proietta la propria ombra nel mondo e quindi esiste. Ma sono affascinato anche dai cambiamenti della carta: il solo bagnarla, il solo passarvi sopra della terra, l’osservarla mentre prende forma e si deforma, la mostra nuova allo sguardo. Non riuscirei a lavorare il marmo, la pietra. Forse perché sono materie in cui c’è rumore, mentre l’argilla è una sensibilità del silenzio, è la plastica del silenzio; è qualcosa che emerge lentamente, che si modifica, si elabora e che nel momento stesso in cui si elabora e si costruisce può anche decostruirsi, sciogliersi e tornare al punto di partenza. Questo andare e tornare continuo ed infinito, questa circolarità è di per sé affascinante e per me particolare; probabilmente perché mi ridà il senso della vita, di ciò che ha in sé il destino della morte ma che nella produzione di opere diventa immortale.
La terra, l’argilla dà origine alle tue forme scultoree: l’idea nasce in te o la trovi nella sua sostanza impastata di immagini?
Antonio Violetta: Per me è un tutt’uno. La necessità è quella di costruire, di plasmare, di lasciare delle impronte che si organizzano, prendono forma, quella forma che discende dalla propria cultura, da ciò che ognuno ha visto, dalla sensibilità personale. Ma la natura intima del fare è informe, non ha cioè natura di forma: è semplicemente qualcosa che è dentro di te. Altra cosa è il fatto che questo costruire si organizzi perché sia visibile agli altri. Ciò che io faccio esiste perché altri lo vedano, perché qualcun altro ne partecipi. Diversamente sarebbe inesistente.
Nel momento operativo, le mani sono, dunque, dei prolungamenti dell’anima?
Antonio Violetta: Io penso di sì. Quando vado in studio e mi metto a lavorare entro nella materia, divento la materia. E’ come se fossi in pura sospensione: il momento e la condizione in cui forse si possono creare le cose migliori.
Anche la materia comunica attraverso la tattilità delle dita, delle mani?
Antonio Violetta: Sì. Io sono stato sempre convinto di questo, ossia che esista una sensibilità verso una certa materia piuttosto che un’altra. E’ come per il fotografo che “sente” oltre che vedere la sua fotografia: sente proprio con le mani la bellezza della carta, il formato, la grana; è come il pittore che sceglie un colore, una tecnica rispetto ad un’altra, perché lì c’è una sensibilità che è tutt’uno con la sua anima.
Nelle tue produzioni creative hai sperimentato connessioni linguistiche inedite, contaminazioni con altri linguaggi. Vuoi parlarne?
Antonio Violetta: Tempo fa con il compositore Fabrizio Festa ho lavorato a la “Géante” di Baudelaire. Avevo già realizzato negli anni ottanta un’opera in carta che si chiamava “La giganta” e che si ispirava a questa poesia. Abbiamo quindi ripreso questo progetto: Festa ha composto un pezzo musicale e io ho realizzato un’opera che è stata poi esposta al Museo di Arte Contemporanea di Ravenna. Ho installato la scultura in una sala in cui la musica amplificava i valori comunicativi ed estetici dell’opera. E’stata un’esperienza di contaminazione tra linguaggi: quello scultoreo e quello musicale, ed è stato importante cogliere le suggestioni e le sollecitazioni che l’uno comunicava all’altro. Alla presentazione dell’opera abbiamo avuto modo di valutare gli intrecci che si erano formati.
Nelle opere più recenti c’è una felice sintesi della tua ricerca: i tuoi torsi sono attraversati da solchi, da trame di segni; i corpi sono altrettante “scritture”, evocative delle tue “ pagine”.
Antonio Violetta: Sì, penso di sì. Un continuo fluire di emozioni che tocca vari punti e ritorna su se stesso.
Allora, in conclusione, cos’è per te l’arte?
Antonio Violetta: L’arte è l’obbligo di non morire.
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