TAI-Tuscan Art Industry è una manifestazione annuale e unica nel suo genere che unisce arte e archeologia industriale a Prato. Giunta alla sua quarta edizione, TAI 2018, dal 20 ottobre al 20 novembre, si focalizza sulla trasformazione del paesaggio industriale dove la natura riconquista spazi vitali, e sulla tradizione degli orti operai di fine Ottocento. La mostra curata da Chiara Bettazzi coinvolge otto artisti: Emanuele Becheri, Loris Cecchini, Alessio de Girolamo, Andrea Fiesoli, Ronaldo Fiesoli, Gianni Melotti, Luca Pancrazzi e Robert Pettena.
Tuscan Art Industry, a cura dell’associazione SC17, nasce all’interno della Corte di via Genova, negli spazi dell’ex fabbrica tessile di Umberto e Natale Bini, dove nel 2005 Chiara Bettazzi, ideatrice del progetto, stabilisce il suo studio e progressivamente trasforma la corte in uno spazio condiviso da artisti, performer, architetti e musicisti. La Corte è oggi un simbolo di rigenerazione post-industriale che coinvolge associazioni locali, istituzioni e amministrazioni pubbliche, attivando mostre, workshop formativi, orti urbani, ed itinerari alla scoperta della grande archeologia industriale del territorio pratese. Ne abbiamo parlato con l’ideatrice del progetto.
Mi racconti gli interventi degli artisti che partecipano a quest’ edizione del TAI?
Chiara Bettazzi: Quest’anno la mostra s’intitola Paesaggi industriali, rovine e orti operai e coinvolge gli artisti sul rapporto fra industria, arte e natura. Alcuni artisti hanno creato opere appositamente per la mostra, mentre altri hanno portato lavori realizzati in precedenza. Ad esempio Ronaldo e Andrea Fiesoli possedevano già una documentazione fotografica interessante sugli orti operai in questo territorio dagli anni ottanta al duemila, documenti d’archivio rari a Prato, che mostrano un paesaggio oggi scomparso. Volevo mettere in relazione le immagini del loro lavoro con l’orto operaio permanente che ho installato qui nella corte e che è in continua evoluzione.
Anche Robert Pettena ha portato una parte della sua ricerca fotografica sulle fabbriche Nobel in tutta Italia. Per la mostra ho scelto scatti realizzati in Toscana della manifattura Tabacchi e della Nobel di Signa, ed un lavoro sulla centrale termoelettrica presso il lago di Santa Barbara, che coglie il cambiamento della natura in una zona che è oggetto di un’importante riqualificazione ambientale. Gianni Melotti agisce sull’entrata della corte con un intervento poetico, una targa con una didascalia, che concettualizza la corte e l’area di via Genova come ‘opera totale’.
L’installazione di dieci vasi in ceramica sul muro di confine con la fabbrica attiva è opera degli utenti dell’Humanitas, cooperativa che si occupa di riabilitazione psichiatrica. Durante un Atelier organizzato da Emanuele Becheri, i ragazzi hanno realizzato questo intervento che sposa anch’esso l’idea di uno spazio industriale che si trasforma in giardino ed orto.
Alessio de Girolamo ha creato un wall drawing su cui è innestata una foto acquisita attraverso un foro stenopeico. L’immagine si relaziona ad un intervento sonoro site-specific che accende l’attenzione su un campo dietro alla corte come spazio poetico, con una melodia al pianoforte realizzata sulla struttura delle formule della fotosintesi clorofilliana. In sottofondo, il suono delle fabbriche attigue è inserito come tappeto sonoro.
Loris Cecchini è presente con un bozzetto preparatorio dell’installazione permanente realizzata a Prato sulla facciata dell’ ex Fabbrica Campolmi, con i suoi moduli di metallo che ricordano una pianta rampicante invasiva. La fabbrica oggi ospita il Museo del Tessuto e la biblioteca Lazzerini, ed è un’istituzione con cui noi collaboriamo ogni anno, e quindi tenevo ad enfatizzare questa connessione attraverso il lavoro di Loris.
Luca Pancrazzi da sempre lavora sul paesaggio industriale, ed è presente con undici disegni a china su questo soggetto che giocano sull’idea di orizzonte. Tengo a precisare che l’invito a Loris Cecchini, Luca Pancrazzi e Alessio de Girolamo è legato al fatto che provengono da Madeinfilandia, un’esperienza in uno spazio industriale rigenerato per certi versi affine alla mia esperienza con la Corte di Via Genova, una residenza d’artista che si svolgeva in una ex filanda, e quindi m’interessava gettare un ponte fra le due esperienze.
Come nasce il progetto TAI, e come s’intreccia alla tua storia personale, alla tua formazione?
Chiara Bettazzi: il Progetto TAI nasce nel 2015 come prosecuzione del lavoro di riattivazione della corte iniziato nel 2005, quando la fabbrica era in uno stato d’abbandono. Allora condividevo uno studio con tre musicisti e a poco a poco, creando situazioni a cui partecipavano non solo artisti, ma fotografi, architetti, e varie figure professionali, gli spazi della fabbrica si sono riempiti e abbiamo iniziato a condividere gli eventi. La compresenza di diverse professionalità nella corte è stata fondamentale perché ha permesso la creazione di progetti trasversali, dando la possibilità di coinvolgere la cittadinanza su diversi piani, non solo quello dell’arte contemporanea. Infatti la città ha reagito con molto interesse al progetto. L’area di via Genova viene ora considerata un polo culturale a Prato.
Un’estensione del TAI è l’“Industrial Heritage Map”, un importante progetto collaborativo in cui hai coinvolto l’architetto Federica Cerella, l’archeologa industriale Stefania Biagioni e la sociologa urbana Chiara Solda’, progetto che è poi diventato un laboratorio per la compilazione di un archivio del patrimonio archeologico industriale di questa zona.
Chiara Bettazzi: L’Industrial Heritage Map nasce insieme al TAI nel 2015. Punto di partenza è stato un libro degli anni ottanta dell’architetto Alberto Breschi, docente della facoltà di architettura a Firenze, intitolato ‘La città abbandonata’ dove sono documentate le sedici fabbriche storiche più importanti di Prato con un progetto successivo di possibile rigenerazione che non fu però mai attuato. Ho fotografato le sedici fabbriche, ed ho messo a confronto le mie foto con quelle del libro, ovviamente alcune fabbriche si erano deteriorate, altre non esistevano più, e al loro posto c’erano dei palazzi.
In seguito è stata realizzata una mappa più dettagliata attraverso uno studio approfondito, che specifica lo stato delle fabbriche con diverse categorie: abbandono, rovina, sottoutilizzo, riutilizzo, rigenerazione ed attività. Stefania Biagioni, Federica Cerella e Chiara Soldà facevano in quel periodo una tesi sul mio percorso, e come succede per molti studenti che mi contattano per i loro studi, le ho coinvolte a lavorare sulla formazione della mappatura. Abbiamo lavorato due anni insieme, ed il progetto è tutt’ora un work in progress che di fatto necessiterebbe di molto lavoro in più per essere costantemente aggiornato.
In parallelo, lo storico dell’architettura industriale Giuseppe Guanci collabora con me ogni anno nell’organizzazione di tour all’interno delle fabbriche abbandonate che sono aperte durante i giorni del progetto. Giuseppe è importante perché rappresenta per me la parte storica da cui partono sempre le ricerche per le varie edizioni del TAI. Gli itinerari che conduce hanno avuto nel tempo un grande successo, anche perché le persone che quotidianamente passano davanti a questi edifici sbarrati si incuriosiscono, si domandano cosa ci sia dentro. Inoltre spesso vengo contattata dagli operai che ci lavoravano, o dai loro familiari, che mi raccontano aneddoti preziosissimi per la mia ricerca. In qualche modo TAI tocca l’anima e la memoria di un territorio, ed è per questo che coinvolge.
Il tuo rapporto con le istituzioni a Prato?
Chiara Bettazzi: Molto buono, gli assessori a cui ho presentato il progetto sono persone giovani e aperte alle sperimentazioni. Sono stati subito ricettivi nei confronti della proposta di un progetto che indagasse il patrimonio industriale della città. Sia il Comune che la Regione Toscana mi hanno appoggiata. Ogni anno partecipo al bando Toscanaincontemporanea e attraverso questo mi viene finanziato il progetto. Credo comunque che mi sia stato riconosciuto il lavoro che faccio da anni all’interno della Corte. Il Museo del Tessuto fa da partner da anni alla manifestazione e lo scorso anno, abbiamo installato al museo una mostra con i lavori realizzati durante il laboratorio di pittura di paesaggio industriale tenuto dall’artista Lorenzo Banci.
La rigenerazione di queste fabbriche quale futuro potrebbe avere, e come si può evitare un effetto di gentrificazione di questi spazi?
Chiara Bettazzi: Le fabbriche che ho riattivato attraverso gli interventi del progetto TAI in alcuni casi hanno avuto cambiamenti di destinazione; a volte sono stati presentati dei progetti di destinazione stravolgenti della funzione originaria e dell’architettura che non condivido affatto. Sono domande che mi pongo ogni anno, mi sono anche chiesta se non fosse stato meglio non accendere un faro su determinate strutture… Ma credo che certi fenomeni, una volta avviata la riattivazione di uno spazio siano inevitabili. Qui alla corte gli affitti sono aumentati, questo fenomeno è molto difficile da evitare. La risposta potrebbe essere quella di sensibilizzare i cittadini al rispetto della funzione storica di questi edifici.
Credo sia importante sensibilizzare le persone del territorio nei confronti di un patrimonio industriale in gran parte scomparso ma che fa parte del DNA di questa zona e anche del mio percorso artistico, basato sul tempo e sulla memoria. Purtroppo l’alternativa per alcune strutture, nel caso il mio lavoro dovesse fermarsi, è l’abbandono. Credo però che queste strutture rappresentino un enorme fascino dovuto allo stato in cui attualmente sono e penso che rappresentino le nuove archeologie del presente, sarebbe interessantissimo poterle lasciare allo stato attuale in cui le vediamo, conservandole solo come si presentano ora e intervenendo con un minimo restauro. Questi siti andrebbero considerati come musei a cielo aperto, come nuovi scavi archeologici, alla stregua dei Fori imperiali e di Pompei.
A tuo avviso il progetto è replicabile in altre zone d’Italia?
Chiara Bettazzi: È una domanda che mi pongo da un anno a questa parte, perché mi piacerebbe molto poter esportare il TAI in altre regioni, anche all’estero eventualmente. Mi piacerebbe anche, ad esempio, poter lavorare alla documentazione di singole fabbriche. Ovviamente con i limiti di territori che non conosco come il mio; io vengo da una memoria legata a questo luogo, mio padre aveva una filatura che fallì negli anni della crisi, quindi mi porto dietro la storia industriale di Prato, che fa parte del mio vissuto.
L’archivio se non sbaglio struttura anche parte della tua ricerca come artista.
Chiara Bettazzi: Ciò che faccio mettendo in connessione l’arte con il patrimonio industriale deriva dalla mia ricerca artistica, che parte dall’idea di archivio, di memoria e di stratificazione del tempo e di oggetti di uso quotidiano che trovo nei mercatini dell’usato, in luoghi abbandonati o in case da svuotare. Archivio questi materiali qui in studio, lavorandoli in un secondo momento attraverso video, installazione e fotografia.
Negli anni ho prodotto molti diari fotografici che documentano sia gli oggetti che ho accumulato che i cambiamenti nel mio studio, anch’essi diventati materiali d’archivio. Il mio lavoro è legato da un unico filo conduttore, in ogni scultura, ad esempio, c’è sempre un oggetto che proviene da un altro lavoro. Un oggetto che si rompe produce un altro oggetto, gli errori producono un nuovo lavoro, la vita quotidiana mi porta ad una creazione che non stabilisco, semplicemente accade.
La fotografia mi accompagna come studio preparatorio, ma il prodotto finale, quello più complesso, si concretizza quasi sempre come installazione o come scultura. Il TAI stesso è un’estremizzazione di questo mio modo di procedere, si colloca su di una linea sottile fra progetto ed opera, in fondo è un assemblaggio di tante cose e di tante situazioni che producono un unico progetto.
Il tuo lavoro nell’ambito del design?
Chiara Bettazzi: Prima di avere piena coscienza del mio lavoro artistico, quando nel 2005 ho aperto il mio studio, ho lavorato molto con arredi d’interni, in particolare con il brand RED VALENTINO, arredando con oggetti industriali usati i loro negozi in tutto il mondo. Quest’esperienza mi ha formata moltissimo aumentando la mia capacità di allestire, reperire e assemblare oggetti.
Il tuo prossimo progetto?
Chiara Bettazzi: Il prossimo appuntamento è a dicembre, alla Galleria Nazionale di Roma per una mostra collettiva che si intitola “Ilmondoinfine: vivere tra le rovine” a cura di Ilaria Bussoni, dove porterò un’installazione, una wunderkammer in cui convivono oggetti organici e inorganici, parte di un lavoro che porto avanti dal 2010.
Hai un sogno nel cassetto, un luogo dove ti piacerebbe particolarmente esporre?
Chiara Bettazzi: Sì, il PAV di Torino, il Parco Arte Vivente, centro sperimentale d’arte contemporanea. Mi piacerebbe portare i quattro anni di progetto TAI con le mie documentazioni sul paesaggio industriale insieme alle opere di tutti gli artisti che ho coinvolto in questi anni, oltre alle collaborazioni con le varie figure professionali che hanno arricchito la qualità del progetto. Sarebbe bellissimo.
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