Scrittura e lettura sono alla base di molti dei suoi lavori, con cui esplora la parola nei suoi aspetti emotivi, cognitivi ed estetici. Espressione di una ricerca introspettiva e meditativa, la sua opera si realizza attraverso il recupero di pratiche artigianali e manuali, in cui la lentezza dell’esecuzione, i gesti minuziosi, la ripetizione e la condivisione silenziosa del lavoro diventano un valore aggiunto. La incontriamo nel suo studio di Marzabotto, dove negli ultimi anni ha organizzato tavoli lavoro con cui condivide parte della sua produzione artistica.
Nella tua recente mostra alla Galleria Continua , intitolata Autobiografia del rosso, mi ha particolarmente colpito la frase di un libro che hai sottolineato in rosso: “Le parole sbiadiscono, gli manca il rosso della vita”. Sembra in contrasto con il tuo lavoro, in gran parte basato sulle parole.
Sabrina Mezzaqui: Il rosso è il colore della vita, dunque l’autobiografia del rosso è l’autobiografia della vita. Mentre lavoravo alla mostra ho raccolto una serie di autobiografie e diari, e intanto avevo letto il romanzo di Grossman “Che tu sia per me il coltello”, da cui ho tratto quella frase. Mi ha colpito la contraddizione di quell’affermazione all’interno di un romanzo in cui le parole hanno un’enorme densità emotiva. Ho voluto evidenziare questo ossimoro anche come immagine, sottolineando le parole in rosso, e riportandole alla vita.
Spesso, nei tuoi lavori, fai riferimento a fiabe. Ho in mente un tuo lavoro in particolare, Il mantello della Regina delle Nevi (2014). Sei una lettrice di fiabe?
Sabrina Mezzaqui: Diciamo che sono una rilettrice sporadica di fiabe. La fiaba è un’esternazione delle immagini archetipiche che ci abitano. L’immaginario della mia generazione è stato molto fertilizzato da queste immagini. Ognuno di noi ha una sua immagine mentale delle fiabe, e a me piace l’idea di darvi concretezza.
Come scegli i libri che leggi e che poi diventano il soggetto delle tue opere?
Sabrina Mezzaqui: Leggo soprattutto saggi, che poi aprono molteplici percorsi di lettura. Invece i romanzi spesso sono doni di amici. Il lavoro nasce quando trovo qualcosa che vuole uscire come ‘forma’, io semplicemente la estraggo dal libro, letteralmente.
Puoi farmi qualche esempio?
Sabrina Mezzaqui: Uno dei primi lavori nati in questo modo, era ispirato dall’Odissea. La figura di Penelope, questa donna seduta a casa a tessere mentre Ulisse è in giro per il mondo, era un personaggio in cui mi identificavo. Quindi ho ritagliato e intrecciato materialmente le righe del libro come se fossero la trama di un tessuto.
Quando hai iniziato ad usare il libro come materiale per i tuoi lavori?
Sabrina Mezzaqui: Il mio primo lavoro con un libro nacque nel 98 e fu il lavoro delle mille gru, mille piccoli uccellini di carta ritagliati dalle fotocopie delle pagine di un romanzo. Il libro era Il Gran Sole di Hiroshima, che negli anni settanta veniva fatto leggere alle elementari. Era la storia di una bimba di Hiroshima che colpita dalle radiazioni lottava per sopravvivere realizzando mille piccole gru di carta. Altre volte invece il lavoro nasce da esperienze di vita.
In un certo senso il lavoro delle gru è legato anche al ricordo di mia madre, che amava molto disegnare. Durante la sua lunga malattia, le chiesi di disegnare qualcosa per un mio lavoro, e lei fece più di 500 grandi fiori di carta, coloratissimi. Mi rammento di aver pensato allora che forse sarebbe stata in vita finché avesse disegnato fiori. Questi fiori sono poi diventati un’opera, Fare Fiori (2017) esposta in Autobiografia del Rosso.
Un libro che per te è molto importante?
Sabrina Mezzaqui: Il vocabolario, perché è il libro dei libri, contiene gli etimi delle parole. Lo sfoglio e quando una parola ‘chiama’ il mio interesse, vado a scoprirne la radice e anche questo è un modo di procedere del mio lavoro.
Una frase che porti sempre con te?
Sabrina Mezzaqui: Ovviamente le frasi cambiano nel tempo. Mi viene in mente una frase che non ho preso da un libro, ma da un accadimento. Ho avuto un piccolo incidente e una persona mi ha aiutato a risolverlo. Mi sono scusata per il disagio procurato a questo soccorritore che mi ha risposto ‘Nessun disturbo, sono cose che succedono ai vivi’. Mi ha colpito come una bellissima indicazione di saggezza, e probabilmente diventerà lo spunto di un lavoro in un prossimo futuro.
I materiali che usi nelle tue opere sono tipicamente materiali associati con il mondo femminile, così come la loro lavorazione, i tempi lunghi, la manualità, la pazienza. C’è forse un riferimento alle pratiche di artiste che negli anni sessanta e settanta rivendicavano con questi mezzi un ruolo femminile in un mondo dell’arte machista?
Sabrina Mezzaqui: Sono figlia di una generazione a cui l’essere donna non ha precluso alcuna strada e certamente dobbiamo tanto alla generazione che ci ha aperto questa strada. Rispetto ai valori che tu definisci femminili, secondo me sono stati demandati al femminile da una società patriarcale che li ha sviliti, ma sono in realtà valori che appartengono a uomini e donne ugualmente, valori umani.
Cosa ti piacerebbe che il pubblico percepisse dalle tue opere?
Sabrina Mezzaqui: Mi piacerebbe che dal mio lavoro fluissero un senso di verità e realtà. Mi spiego: è estremamente importante che non si bari sui tempi e sulle pratiche. Spesso le mie opere sono molto laboriose e richiedono un lungo tempo d’esecuzione, sarebbe inconcepibile accelerare o semplificare, ne andrebbe dell’autenticità e dell’onestà del lavoro. Mi piacerebbe anche risvegliare attenzione. L’attenzione è una facoltà importantissima, penso all’attenzione verso la vita, ad esempio, e ai tanti momenti della nostra vita che invece passano inosservati.
Il processo, la manualità e il tempo sono altri valori che si percepiscono nel tuo lavoro.
Sabrina Mezzaqui: La manualità è sicuramente un valore culturale da sottolineare, soprattutto qui in occidente ora. È il frutto di migliaia di anni d’evoluzione che improvvisamente, nell’era digitale è diventato quasi obsoleto. A mio parere si perde una facoltà che ci tiene vivi, che dà senso al nostro esistere, alle giornate.
Leggevo che i nostri bambini la stanno perdendo, perché con tablet e telefonini hanno a disposizione il mondo in un solo oggetto. Però è stato osservato che trascurare l’apprendimento della calligrafia preclude lo sviluppo di alcune parti del cervello, tanto da reintrodurre in alcune scuole elementari questa pratica. Viviamo in un momento in cui sottolineare la lentezza come valore culturale potrebbe essere importante.
La velocità è una modalità, non un valore assoluto, come la cultura contemporanea vorrebbe farci credere. La lentezza al contrario è percepita come un problema, quasi una patologia. Corrisponde anche ad un periodo della vita, la vecchiaia, a cui abbiamo tolto ogni valore. La lentezza invece è legata a tante pratiche orientali, che in occidente stiamo recuperando perché soverchiati dalle nostre vite accelerate, dallo stordimento dell’ansia e dell’eccesso, dove se non fai un po’ di vuoto non può entrare nulla di nuovo.
Ho notato che citi spesso l’Oriente…
Sabrina Mezzaqui: Sono stata svariate volte in India, e il primo approccio con il paese è sempre difficile, tutto è eccessivo: la gente, i colori, gli odori. Dopo pochi giorni però una parte di me si lascia andare, mi ammorbidisco e tutto mi appare finalmente bellissimo. L’India è un paese dove esiste il culto della bellezza, a cominciare dai riti quotidiani, una bellezza che a volte si trova in mezzo agli escrementi. La cultura orientale tende a realizzare l’armonia degli opposti, mentre la nostra cultura si basa sulla logica di un linguaggio binario e competitivo.
Infatti, in un’intervista qualche tempo fa hai affermato che nella società contemporanea la differenza tende ad essere rappresentata come scontro.
Sabrina Mezzaqui: C’è una frase di Eraclito, che per certi versi rappresenta la sintesi del pensiero occidentale e orientale, che afferma che il conflitto è padre di tutte le cose. Per la cultura occidentale, dal conflitto deve per forza uscire un vincitore; l’oriente invece ipotizza che il conflitto possa essere armonizzato.
A mio parere la natura umana contempla entrambe queste possibilità. Viviamo in un tempo in cui siamo chiamati al loro recupero, perché siamo una civiltà in decadenza, non sappiamo più rispondere alle grandi domande di senso e non siamo accompagnati, sempre a livello culturale, nella nascita e nella morte. Siamo indotti a consumare tutto, velocemente, anche la vita.
C’è un’altra differenza sostanziale fra i due sistemi di pensiero: la filosofia occidentale s’appaga di sé, della potenza del proprio pensiero: le affermazioni spesso, purtroppo a livello politico ormai in modo sfacciato, non hanno bisogno di essere comprovate da una pratica. In oriente è la pratica che sottolinea l’autenticità di un qualsiasi percorso, e per tornare alla tua domanda su cosa vorrei che si percepisse nel mio lavoro, è sempre la pratica ad avvalorare un discorso sulla ‘verità’.
Stai lavorando ad un nuovo progetto?
Sabrina Mezzaqui: Con il mio gruppo di lavoro stiamo ricopiando a mano i 29 quaderni di Hannah Arendt, filosofa che ha catturato il mio interesse anche per la sua esperienza di vita: ebrea e al contempo migliore allieva ed amante di Heidegger. Io non ho avuto una formazione filosofica, e ricopiare a mano i suoi quaderni, prima ricalcati a matita con l’aiuto del mio gruppo di lavoro, poi ripassati a penna da me, è un modo pratico e personale di restare a lungo sul suo pensiero, molto complesso.
I quaderni sono oggetti molto curati, ciascuno ha una copertina diversa, i cui disegni in nero grigio e bianco s’ispirano all’estetica del Bauhaus, gli anni in cui la Arendt si è formata. Il lavoro verrà esposto man mano che progredisce, i primi sei diari sono stati esposti a Torino, e a ottobre altri saranno a Ravenna in una mostra sulla guerra.
Un secondo progetto è iniziato con un bando di concorso indetto dallo Scompiglio, una fondazione di Lucca che organizza residenze artistiche. Il titolo “Della morte e del morire” mi ha attirato perché molto coraggioso in un’epoca che nega la morte. Sto organizzando un tavolo di lavoro dove amici, collaboratori e studiosi si alterneranno per aiutarmi a riflettere su questo tema. Ancora non so come si concretizzerà la parte estetica. E a novembre sarò in una collettiva a Reggio Emilia intitolata “La vita materiale – 8 stanze – 8 storie”…
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