AAttivo dalla seconda metà degli anni novanta, Loris Cecchini (Milano, 1969) è tra gli artisti italiani più affermati a livello internazionale. Incontro Loris Cecchini alla Galleria Continua di San Gimignano che dedica all’artista, tornato in Italia dopo un’esperienza di cinque anni a Berlino, una bella e comprensiva personale. Intitolata ‘The Ineffable Gardener‘, la mostra raccoglie un folto numero di nuove opere, fra cui grandi sculture modulari in acciaio, sculture in marmo e in resina poliestere, quadri monocromi, e una serie di acquerelli di nuova concezione. Al centro del lavoro di Loris Cecchini è una trasformazione sensoriale ed emotiva dello spazio attraverso strutture ed elementi che contaminano mondo organico e artificiale. Nelle opere più recenti, scultura e installazione subiscono un processo di deflagrazione diventando particelle, un processo in cui la fenomenologia scientifica diventa tramite della vena poetica dell’artista.
Puoi spiegarmi il titolo della mostra? Sei tu il giardiniere ineffabile?
Loris Cecchini: Sì, forse il giardiniere sono io, è il lavoro che mi piacerebbe fare da grande! In realtà il titolo è una metafora del lavoro esposto in mostra, perché le opere, grandi e piccole, sono legate fra loro da un senso di memoria della natura. Il termine ineffabile richiama qualcosa di sconosciuto e introduce la destinazione del lavoro, una forma di empirismo metafisico. Un giardiniere comprende la struttura della pianta, ma ha anche il senso del divino, ed io tengo molto a introdurre un esito metafisico nella mia manualità. Nel mio lavoro, struttura, costruzione ed elaborazione con materiali differenti, toccano problematiche legate alla poetica dello spazio e al linguaggio della scultura e formulano ipotesi diverse che vanno dalla fenomenologia al diagramma, dalla consistenza solida del colore alla deflagrazione della massa scultorea.
Quali materiali ti hanno dato maggiore soddisfazione?
Loris Cecchini: Sono due i materiali relativamente ‘nuovi’ nella mia produzione, cioè il marmo e l’acquerello. Pratico da sempre l’acquerello, ma l’ho riformulato qui in una serie nuova che s’integra con le installazioni con una dimensione più intima e privata. In passato, ho utilizzato la processualità del disegno in varie forme e su tanti livelli, dallo schizzo al disegno in 3D, ma credo che l’acquerello abbia una dimensione favolosa legata alla pittura e a un senso dell’antico. L’ho riletto facendolo galleggiare all’interno d’involucri trasparenti modellati con forme concave e convesse che proiettano ombre, interagendo con il disegno e la pittura sottostanti.
Se non sbaglio hai iniziato il tuo percorso con la pittura…
Loris Cecchini: Ho frequentato per due anni l’Accademia di Belle Arti a Firenze, praticando anche una famosa scuola d’incisione. Nel ‘91 mi sono trasferito a Milano, e ho frequentato gli ultimi tre anni all’Accademia di Belle Arti di Brera. Ero iscritto alla cattedra di pittura, ma, di fatto, ho iniziato quasi subito a praticare la scultura.
Molti dei tuoi lavori sono basati sulla dialettica fra opposti. Diresti che il paradosso fa parte della tua poetica?
Loris Cecchini: Il paradosso ha fatto parte della mia strategia linguistica sin dall’inizio, perché permette una lettura polisemica del significato. Ad esempio nelle sculture di gomma e nelle serie di fotografie, dalla metà dagli anni novanta fino al 2005, decontestualizzavo immagini e oggetti traducendoli in una forma paradossale: era una scorciatoia per revisionare un dato reale e portarne il significato altrove. Le librerie a muro e la trave qui in mostra sono palesemente surreali: l’aspetto di surrealtà fa parte della mia immaginazione.
Nel tuo lavoro le metafore biologiche coesistono con riferimenti all’architettura, alla produzione industriale e alla tecnologia. A tuo parere, tecnologia e natura sono oggi sempre più opposti oppure sempre più complementari?
Loris Cecchini: Non credo vadano in una direzione opposta. Storicamente natura e tecnologia si stratificano, dando poi luogo a un paesaggio complessivo. Accanto al dato naturale esiste il nostro approccio culturale che è tradotto in tecnologia, ed è il sapere di un momento storico. Oggi le ricerche nel campo dell’architettura e del design parametrici fanno sempre più riferimento alla processualità della natura per elaborare forma e funzione, anche grazie al fatto che negli ultimi vent’anni il livello di coscienza ambientale è cresciuto.
La natura tradotta in tecnologia sembra concretarsi nell’installazione “Waterbones (Green Sponge + L System) ” in dialogo con un’opera sonora realizzata dall’artista Alessio de Girolamo. Ad Alessio chiedo di raccontarmi com’è nata la vostra collaborazione.
Alessio de Girolamo: Ho proposto a Loris una collaborazione lo scorso aprile, dopo aver notato che l’assemblaggio dei suoi moduli seguiva un sistema che si riscontra anche in natura, nella crescita delle piante ad esempio. Questo sistema, chiamato ‘sistema L’, segue una funzione precisa con delle variabili e delle costanti. Ho individuato la funzione basica con cui lavora Loris, ed ho creato un tappeto di musica generativa che si evolve e cresce come la vegetazione, partendo da un campionamento di gocce d’acqua, per collegarmi al titolo del lavoro. Da quattro anni porto avanti una ricerca complessa basata sulle analogie che ho identificato tra il modello atomico di Bohr e il pianoforte ideato da Busoni (Bosendorfer Imperial 290). In seguito a questa ricerca compongo musica il cui impianto è basato sulla tavola periodica: è un po’ come suonarne gli elementi. Il suono del pianoforte che emerge ciclicamente in questa composizione, si basa su formule chimiche che s’ispirano appunto alla tavola periodica, che è anche alla base del lavoro di Loris.
Loris, la tecnologia sarà il paesaggio del futuro?
Loris Cecchini: La tecnologia è già paesaggio. Nelle generazioni più giovani è un filtro inevitabile. Queste generazioni stanno perdendo il senso della natura intima delle cose, non solo della loro struttura. Soprattutto si sta perdendo l’abilità di discernimento fra vero e virtuale. Guardare un video e immaginarsi in altri luoghi oggi è pratica comune.
In sostanza allora aveva ragione il filosofo Jean Baudrillard quando diceva che la società contemporanea è immersa nell’iperrealtà…
Loris Cecchini: Assolutamente. Baudrillard ha parlato di simulacro negli anni ’90, gli anni della mia formazione, e il mio primo lavoro lo citava chiaramente. Sia Baudrillard, che Paul Virilio hanno parlato di perdita di coscienza e conoscenza del reale. Vent’anni dopo tutto questo si è già realizzato ai massimi livelli.
L’idea di un mondo dove l’intelligenza artificiale è sempre più sviluppata, ti preoccupa o ti rassicura?
Loris Cecchini: Direi che mi preoccupa. Non sono conservatore, ma neppure legato alla tecnologia a tutti i costi. L’intelligenza artificiale è una destinazione cui non possiamo sottrarci, che creerà ulteriori paradossi nell’elaborazione della realtà. Già da tempo il cinema ci ha dato ampia visione di una possibile deriva in tal senso. Solo per citare un esempio, si pensi a Hal 9000, il super computer di 2001: Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick. Con l’uso della robotica, in campo domestico o medico, oggi siamo già lì, all’intelligenza artificiale che si sostituisce all’uomo nelle scelte: questo mi spaventa un po’.
Quando crei un lavoro, come immagini che il pubblico lo esperisca? Sei più interessato a evidenziare la dimensione fenomenologica del lavoro, oppure anche l’idea di esperienza psicologica entra nella concezione dell’opera?
Loris Cecchini: Entrambe le cose. L’aspetto psicologico si manifesta nello spazio che c’è fra il lavoro e lo spettatore. Lì nasce il possibile senso del lavoro, che è dato dal bagaglio culturale, quindi dalla capacità interpretativa dello spettatore, necessaria al completamento del mio linguaggio. Per l’aspetto fenomenologico, il corpo si muove in uno spazio organico che riconduce all’idea di natura, perché perde la struttura euclidea: in natura l’angolo retto è praticamente inesistente.
In un’intervista con Marco Meneguzzo, nel 2014, hai collegato la tua propensione per una geometria e architettura non euclidea con l’italianità. Mi potresti spiegare perché?
Loris Cecchini: Ho vissuto per quasi sei anni a Berlino e stando fuori dall’Italia inevitabilmente ti rapporti all’altro, e al luogo in cui ti trovi, e l’idea d’italianità si fa più presente. Ad esempio l’architettura tedesca è più basata sulla griglia di tipo ortogonale, mentre da noi è tipicamente curva: l’arco è parte integrante della nostra cultura; il barocco è un altro esempio di architettura curvilinea. Anche il nostro cibo parla il linguaggio delle forme: in Italia esistono più di 250 forme di pasta. Noi mangiamo forme.
Nella stessa intervista, sostenevi che la distanza poetica è il fondamento dell’arte, e che sei più legato alla metafisica dell’arte che alla sua dimensione socio-politica. Ma pensare che l’arte possa essere un ‘laboratorio’, per l’architettura, in senso lato, di un mondo futuro, non è in qualche modo pensare in chiave sociale?
Loris Cecchini: Per aspetto sociopolitico intendevo una propensione a prendere una posizione e comunicare informazioni, mentre l’arte deve essere formativa, non informativa. La dimensione sociale esiste comunque negli artisti, perché hanno un’attitudine critica verso la realtà. Io credo ancora al valore esperienziale dell’arte: l’arte è materia, l’esperienza deve essere fisica, non quella di un’immagine vista su un cellulare. In questo senso, le derive poetiche e metafisiche sono la peculiarità del nostro lavoro. Se togliamo questo, rimane una forma di ‘creatività’, oggi molto diffusa, che non è propriamente un linguaggio artistico.
A proposito di creatività, hai spesso compiuto incursioni nel mondo del design. Come vedi la commistione di arte e design? Hai trovato differenza fra Italia e altri paesi in questo senso?
Loris Cecchini: A mio parere la collaborazione fra arte e design in Italia è ben accetta, anzi sarebbe bene creare maggiori occasioni d’incontro. In Italia c’è una lunga tradizione, principalmente legata agli anni cinquanta e sessanta, di geniali collaborazioni fra impresa, produzione e artisti. Lavorando, ad esempio, per le gioiellerie Chaumet in Francia, per Miroglio Textile in Piemonte, e in altre occasioni, ho avuto modo di costatare che sia io che i miei interlocutori, siamo stati costretti a una ‘revisione’ del nostro lavoro alla luce della collaborazione. Ho appreso cose che riguardano altri ambiti e settori, dal marketing alla produzione industriale, cercando poi un dialogo con il mio specifico. E questo è un bene. L’arte introduce una dimensione di maggior lentezza rispetto ai sistemi di produzione industriali o legati al design, e tempi diversi con cui osservare le cose, una pausa nell’idea di consumo che ormai pervade tutto.
Tornando agli anni della tua formazione, il critico Bourriauld descriveva un’estetica della precarietà tipica del nuovo millennio, e una nuova forma di scultura caratterizzata da ‘forme transitorie, dinamiche in potenziale movimento’. Ti riconosci in qualche modo nella descrizione?
Loris Cecchini: Ricordo che ci fu anche una mostra al New Museum di New York, Unmonumental nel 2007, ispirata a questa tesi. Io non credo affatto che la mia scultura dia un senso di precarietà, al contrario, credo che dia un senso di flusso, di forma aperta ma solida e strutturata. Se c’è un senso della precarietà, solo poetico, si ritrova forse negli acquerelli, nelle slabbrature del foglio, del colore. L’atteggiamento descritto da Bourriaud fu a mio avviso una normale reazione alla monumentalità degli anni duemila, alle opere di Anish Kapoor o Olafur Eliasson, ad esempio. Gli artisti si devono difendere dal linguaggio degli altri artisti. Oggi l’atteggiamento dei più giovani è cambiato, la precarietà ha lasciato il posto a un senso diverso, che è quello di saper perfettamente ‘confezionare’ delle opere, un atteggiamento legato a un mondo e un mercato dell’arte profondamente cambiati. Molte gallerie sono brand multinazionali, l’artista stesso è diventato un brand. C’è un forte senso estetico, ma tornando al discorso di una dimensione ‘sociale’ non saprei bene dire come si posizionano.
Per terminare, com’è cambiato nel tempo il tuo modo di ‘abitare lo spazio’?
Loris Cecchini: Forse oggi la dimensione primigenia del senso dell’abitare e della protezione, che era presente nelle forme a bozzolo, le mie roulotte ad esempio, si è persa. Il lavoro cambia anche in virtù a del tempo in cui si pratica, e oggi ancora più dell’architettura m’interessa la natura intrinseca delle materie, le dimensioni nano e macro spaziali. Alle dinamiche architettoniche ritorno grazie ai moduli. L’aspetto di deflagrazione dell’opera mi dà modo di costruire degli organismi, di progettare un tipo di scultura che si espande e si contrae nello spazio, che perde massa per farsi cosmogonia e per dire che tutta la materia è intrinsecamente particellare.
Gallerie di riferimento:
Galleria Continua di San Gimignano (SI)
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